(QUARTA DI COPERTINA )
A.M. non è un “filosofo”.
In quanto fisico (ad indirizzo applicativo, tiene a precisare), però, è stato costretto, per legittima difesa, sottolinea, a sostenere una precisa posizione filosofica, potremmo schematicamente definirla “materialismo razionalista”, da furibondi attacchi da parte delle filosofie meta-fisiche comunque travisate. E travisate assai spesso con mascherature anti-metafisiche. Nietzsche è generalmente citato come l’antesignano della demolizione della scienza come si è sviluppata in due e più millenni del pensiero umano, e vedremo qua per l’appunto che tipo di piccone utilizzi, come approcci il concetto stesso di “ricerca scientifica” e la personalità del “ricercatore”.
E’ questo il motivo per cui si è imbattuto in un testo pochissimo letto ed analizzato dai “filosofi” quale GENEALOGIA DELLA MORALE, che costituisce la SUMMA filosofica di Federico Nietzsche nonché il vero e proprio MANIFESTO programmatico dei nazifascismi di ogni risma.
Lo smontaggio del testo ha richiesto pochissimo intervento critico: sono le stesse parole dell’autore a commentarsi da se, a demolire il consueto benevolo atteggiamento degli autori di manuali di storia della filosofia che presentano Nietzsche come un geniale grande filosofo, (quando non la vetta dell’intero pensiero filosofico), purtroppo malevolmente “strumentalizzato” dalle destre di ogni risma.
Questo è l’assunto che A.M. contesta e intende rovesciare in questo scritto, ben consapevole che attaccare un mostro sacro come F.N. sarà visto come un grave reato di lesa maestà.
Nella non-filosofia di Nietzsche sta la giustificazione, anzi la esaltazione “culturale” dello schiavismo di ogni epoca, ivi incluso lo schiavismo fino allo sterminio, di Auschwitz e Birkenau.
Lettura di “Genealogia della morale, uno scritto polemico”, 1887
(a mo’ di presentazione):
Veder soffrire fa bene, cagionare la sofferenza ancora meglio, pag 55
INDICE
Avvertenza pag 2
Introduzione pag 3
Schema dell’ opera pag 9
Alcuni primi giudizi della critica pag 14
La clandestinità elitaria pag 15
L’opera pag 15
La filosofia del post-moderno pag 44
Lo Stato pag 46
Altri giudizi e alcuni commenti pag 46
La lezione di M.Ferraris pag 52
In conclusione pag 57
Appendice – Ulteriori significative citazioni di F.N. pag 58
AVVERTENZA
Nietzsche ha apposto a Genealogia della Morale il sottotitolo: UNO SCRITTO POLEMICO. Ma già dai primi paragrafi del testo si nota come il senso reale del sottotitolo sia in realtà: UNO SCRITTO POLITICO.
Perché la ossessiva ricerca che sta alla base dell’ opera (e, dobbiamo ammettere, dell’ intera opera di N.), è quella della ricostruzione di un piedistallo granitico a quelle classi sociali che nel corso dei secoli avevano gestito incondizionatamente il potere assoluto a partire da violente e sanguinarie appropriazioni, rapine e genocidi. Il problema di N. è STRUTTURALMENTE un problema POLTICO, il problema dello STATO, della GESTIONE DEL POTERE.
E’ la crisi incombente delle classi aristocratiche al tramonto che angoscia F.N. e lo costringe a spingersi su territori come la filosofia, la storia, la scienza, il diritto, pur di trovare improponibili appigli alla sua impresa esaltatrice ed assolutoria di una classe sociale ormai definitivamente indifendibile.
N. non tenta nemmeno di difendere la borghesia capitalista, la classe ormai stabilmente radicata in ogni ganglio del potere, e messa in crisi già allora dalla avanzata delle classi popolari, no, egli risale ancora più indietro fino a ripescare gli antenati dell’ aristocrazia perdente e della nuova aristocrazia del capitale, quei conquistatori sanguinari che avevano fondato gli imperi del passato con lo sterminio dei popoli autoctoni e con una prassi da belve sanguinarie, che N. esalta e glorifica in ogni sua pagina, come vedremo nella lettura di quest’opera sconvolgente. E sulla base di questa esaltazione, sogna e preconizza l’avvento di nuovi soggetti e di nuove razze in grado di replicare le gesta dei mitici eroi del passato, di portarle alle estreme conseguenze, di esprimere dei superuomini ai quali affidare le sorti del mondo.
La scienza, terreno culturale pre-politico e di per se neutrale, gli appare (giustamente!) un intollerabile ostacolo. Lo supera con agile balzo, a conclusione dell’opera, bollando gli uomini di scienza come poveri ciechi che hanno sempre brancolato nel buio della incoscienza (pag 149).
Da ogni pagina dei suo scritti trapela il problema DI FONDO del suo travaglio: il pathos della nobiltà e della distanza, il perdurante e dominante sentimento fondamentale e totale di una superiore schiatta egemonica in rapporto ad una schiatta inferiore… (GdM, pag 15).
Nei 10 anni più significativi della sua produzione, N. è sempre più ossessionato da questa missione alla quale si dedica con una passione compulsiva certamente degna di ben miglior causa.
Pur di dimostrare come i grandi assassini, le grandi belve umane del passato e del presente, siano in verità gli unici esemplari della specie umana in grado di sollevarsi miglia e miglia al di sopra di una umanità misera, plebea, maleodorante, inferma, N. inventa una sua “morale”, un suo “diritto”, una sua “scienza”, insomma una sua “filosofia”.
Si sono sprecati fiumi di inchiostro per dimostrare come F.N. sia stato un filosofo “rivoluzionario”.
Ho sempre inteso il termine rivoluzionario come “fautore della rivoluzione come unico mezzo del rinnovamento sociale” (Devoto Oli). Pertanto chi si batte per una intera vita per la glorificazione e la restaurazione di regimi pre-feudali, tipici di ere lontane (e di cui l’umanità non ha certamente alcun bisogno), se le parole hanno ancora un senso, è un contro-rivoluzionario assoluto, un reazionario fanatico e totalizzante, l’esatto contrario di un “rivoluzionario”
Per assolvere al compito che via via espone in forme sempre più esplicite, N. deve rovesciare tutte le acquisizioni positive dello sviluppo umano, dall’ idealismo hegeliano al positivismo scientista, al materialismo storico e razionalista, giacche nulla di quanto il pensiero umano ha prodotto può essere utilizzato nell’ambito di una missione invero impossibile.
Inventa così via via dei costrutti inevitabilmente arbitrari, inevitabilmente autocontraddittori. Si addentra in campi che non conosce, con indecente sicurezza, ad es. negli stessi giorni in cui esprime
in una lettera un parere su questioni fondamentali (a es, sugli ebrei, come vedremo più avanti) scrive in un suo libro (questo), l’esatto opposto. Esalta il ruolo della scienza e subito dopo definisce gli scienziati poveri illusi che brancolano a tentoni nel buio della coscienza senza un vero scopo.
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Davanti alla concreta difficoltà di trovare tracce storiche di dinastie aristocratiche da proporre come esempi positivi, (confessa però un’ ammirazione incondizionata per Cesare Borgia!) N. passa in quest’opera, riprendendo peraltro le precedenti, alla ipotesi della formazione e della affermazione di una nuova stirpe vincente in grado di perpetuare la sanguinaria voglia di potere e di possesso di quelle che la hanno preceduto. Si spinge persino alla glorificazione e santificazione di un recente esempio storico: di fronte alla “sfortunata” vicenda della nobilissima aristocrazia di Francia, la emersione di un condottiero come Napoleone viene additata come positivo segno di speranza in una società in grado di tornare, malgrado le infezioni democratiche e socialiste, ai fasti del passato. Sembra persino accontentarsi di nuove stirpi vincenti non-bionde e non-ariane pur di veder tornare il potere politico nelle mani di UN solo uomo, e al suo seguito di una sola classe, quell’ oltre-uomo che solo le stirpi e le razze elette sono in grado di esprimere.
Ed è davanti a questo compito rigorosamente POLITICO che N. si spende in ogni direzione possibile, invadendo campi certamente a lui non noti, pur di dimostrare la consistenza filosofica del suo modello.
Consistenza filosofica che ha trovato nei decenni successivi una tragica e catastrofica conferma sul piano politico non appena una crisi economica inarrestabile lo ha reso necessaria.
INTRODUZIONE
Perché, a 120 anni dalla sua morte ed a 130 dalla sua uscita di scena, impegnare la propria attenzione ed il proprio tempo su di uno dei tanti capitoli di un qualsiasi manuale di Storia della Filosofia? Durante la compilazione di questo lavoro molti mi hanno fatto questa domanda, non i tanti amici che conoscono la domanda che mi pongo da sempre e che mi costringe da anni a studiare le più indecenti opere della “cultura di destra”. La domanda è: com’è possibile, su cosa è stata costruita, una adesione di massa a movimenti violentemente antipopolari; come è possibile che in Italia quasi il 50% di cittadini aderisca a movimenti che nelle parole d’ordine più pubblicizzate si riferiscono in modo evidente, anche se pudicamente non dichiarato, a tematiche apertamente nitzscheane come l’atteggiamento sui migranti, la categoria del “buonismo”, i ROM, l’uomo dai pieni poteri. Deve essere ben chiaro che invocare il blocco navale, la sospensione della ricerca dei naufraghi e la chiusura dei porti significa la soppressione di percentuali crescenti di popoli afro-asiatici affamati. Che “eliminare i campi ROM” esprime un programma di eliminazione dei ROM.
Su cosa si basa il sostrato delle parole d’ordine degli agitatori reazionari in grado di manipolare consistenti strati popolari contro i loro stessi interessi, sia in Italia che in Europa e negli altri continenti? Com’è possibile che personaggi come Alemanno, in aperta sintonia con la cultura più reazionaria, abbiano assunto in questi anni cariche come quelle di Sindaco di Roma? Che movimenti di piena adesione al programma hitleriano occupino indisturbati da decenni un prestigioso palazzo nel cuore della capitale, malgrado l’avvicendarsi di governi di varia estrazione ideologica? Che un nazifascista dichiarato occupi la poltrona di ASSASSORE ALLA CULTURA della Regione Sicilia, nominato da un presidente fascista mai pentito?
In definitiva, quali sono i fondamenti, su cosa si basa la “cultura di destra”?
Saltando a piè pari i pallidi ripetitori odierni, personaggi come Ernst Jünger, Jiulius Evola, Pierre Drieu La Rochelle, Alfredo Oriani, Yukio Mishima, Alain de Benoist, Maurice Bardeche, hanno troppo in comune, una sovrapposizione, ideologica e stilistica, che richiede l’individuazione della comune matrice, che, senza grandi sforzi di analisi storico-filosofica, balza prepotentemente fuori: e si scopre come F.N. sia stato da questi signori letteralmente smembrato, cannibalizzato, e senza soverchi sforzi, anzi, direi, senza alcuna ulteriore elaborazione, trascritto e utilizzato per fabbricare una discreta fortuna editoriale (e non solo!), ma soprattutto per fabbricare un alibi culturale e “filosofico” nella preparazione di operazioni politiche immonde, quali le operazioni stragiste, e le connesse strategie di massa, finalizzate a rivendicare uno Stato fondato su Ordine e Disciplina.
Operazioni tutte sotto l’egida di Servizi segreti nazionali e sovranazionali, per le quali abbiamo pagato in Italia un gravissimo contributo di sangue, e non solo.
Smontare e prosciugare il serbatoio arrugginito dal quale fuoriesce tanta finta “cultura”, tanta finta
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“filosofia”, mi è apparso un dovere ineludibile.
Chiarire la più probabile (tra le tante) personalità di F.N., e la più significativa, vuol dire, mi pare, contribuire a chiarire come, al di sotto delle spinte dialetticamente evolutive, dell’ “ordinario dibattito culturale”, covi, anche dopo lo tsunami suicida del nazifascismo, una volontà di revanche da parte degli ambienti più aggressivi dell’ imperialismo mondiale (v., solo a titolo di es., i vari think tank che influenzano e determinano il potere USA) che si riverbera nelle manifestazioni sovraniste e populiste in tutto il mondo. E soprattutto come questa revanche si faccia forte di quanto più incongruente, autocontraddittorio e patologicamente inquinato, sia stato prodotto nel XIX sec., proprio il pensiero di F.N.
Perchè tra le decine di migliaia di pagine di questo anomalo scrittore ho ritenuto di analizzare proprio GENEALOGIA DELLA MORALE (1887, edizione italiana curata da G.Colli e M. Montinari)?
La risposta sta nelle stesse parole di N.:
“A quel tempo, come ho detto, misi per la prima volta in luce quelle ipotesi genetiche a cui sono dedicati questi saggi; in maniera, però, poco abile, che mi piacerebbe in definitiva nascondere a me stesso, ancora non libera, ancora senza un mio proprio linguaggio per questi specifici temi e con ricadute e tentennamenti di vario genere. Si confronti in particolare quel che dico in «Umano, troppo umano», p. 51, sulla doppia preistoria di bene e male (cioè secondo la sfera dei nobili e quella degli schiavi); e similmente (pp. 119 sgg.) sul valore e sull’origine della morale ascetica; come pure, pp. 78, 82; li, 35, sulla «eticità del costume», quella specie molto più antica e originaria di morale che si discosta toto caelo dal mio dalla maniera altruistica di valutazione ; si veda pure p. 74, in «Viandante», p. 29, in. «Aurora», p. 99, quel che scrissi sull’origine della giustizia come compromesso tra potenti pressappoco uguali, e inoltre sull’origine della pena in «Viandante», pp. 25, 34, per la quale lo scopo intimidatorio non è né essenziale né originario.
In fondo, proprio in quel tempo avevo in animo qualcosa di molto più importante che una congerie di ipotesi mie o altrui sull’origine della morale (o, più esattamente, questa seconda cosa soltanto in vista di un fine per il quale essa rappresenta un mezzo tra molti). Per me era in questione il valore della morale ….”
E d’altronde, come si nota dalla cronologia che segue, N. ha ancora soltanto il tempo di pubblicare, nell’ 88, tre altre opere, che poco aggiungono, ma già nei primi giorni dell’ 89 le sue condizioni psichiatriche precipitano e la sua produzione letterario-filosofica si interrompe per sempre.
F.N. ha sempre ritenuto se stesso (oltre che uno psicologo ed un uomo di scienza!) sopratutto un filosofo, cosa che a quanto egli stesso ammette, non era compresa dai suoi lettori coevi, e d’altronde la “forma” dei suoi scritti appare un indefinibile e sempre variabile profluvio di aforismi, racconti, romanzi, poesie, persino composizioni musicali, riflessioni svolazzanti su specifici temi o su grandi temi che caratterizzavano il clima culturale del XIX sec.
Ed è proprio per fornire ai suoi lettori una interpretazione certa e definitiva di quanto sparso nel fiume dei suoi scritti, che decide di scrivere un testo, una summa, che gli appare un’opera di natura profondamente filosofica.
In G.d M., Nietzsche cita in ogni pagina qualche suo precedente scritto, rafforzando quindi l’ipotesi che egli intenda ad ogni costo attribuire un valore filosofico definitivo alla intera sua immensa produzione, ed a porre un punto fermo alle infinite possibili interpretazioni.
Invitiamo i lettori a scorrere, su “Wikiquote” una preziosa raccolta di centinaia o migliaia di citazioni “di” F.N.
Si resterà in prima battuta frastornati davanti alla incredibile mole di affermazioni, considerazioni,
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vere e proprie sentenze, tutte rigorosamente incoerenti e incongruenti, schizzi di erudizione che dimostrano solo quanto mal digerita fosse la enorme mole di acquisizioni culturali che N. andava accumulando nel corso degli anni (attenzione: con accurate censure preventive che esamineremo più in là) e che venivano affastellate senza la minima ricerca di autocoerenza.
Tutto ciò in prima battuta, e questo mare magnum di posizioni contraddittorie, svolazzanti, in apparenza aperte alle più svariate visioni del mondo, ha affascinato migliaia di lettori, anche di studiosi di notevole profilo.
Sempre in Wikiquote si trovano 50 citazioni di critici “su” Nietzsche. Si intravvede così come sia stato possibile quello che qualcuno ha definito “Il mistero di N.”. Il vero mistero non è N., è come migliaia di commentatori abbiano scelto di aggrapparsi ad uno dei mille aspetti della psiche di N. per costruirvi fantasiose ricostruzioni della sua personalità umana e filosofica.
Il rapporto di N. con la scienza è esemplare: il suo iter lo porta qua e la a contatto con emergenze scientifiche di ogni tipo, a cui egli si accosta con riverenza sperando di poterle utilizzare nei suoi costrutti dimostrativi ideologici. In seguito, travolto dalla impossibilità di strumentalizzare anche la scienza ai suoi fini, se ne uscirà con una sorta di damnatio perennis proprio nella conclusone di quest’opera.
Purtroppo dobbiamo arrivare alla conclusione (anticipiamo quanto emergerà dalla lettura attenta del testo) che la maggior parte degli autori che si pongono in quest’ottica (in queste ottiche), GENEALOGIA DELLA MORALE non l’abbiano mai letto. Si possono anche assolvere quegli studiosi che non hanno resistito già alle prime pagine di questa immane e illeggibile montagna di autocelebrazioni da parte del suo autore, e ciononostante, uno sforzo in tal senso non può non essere fatto, giacchè in questa montagna si rinviene il delirante nucleo, esplicito e dichiarato, del pensiero strutturalmente politico di N. e, a cascata, di ogni delirante pensiero di destra che ha caratterizzato il XX e caratterizza il XXI sec.
E chi GdM l’ha certamente letto (Montinari, in primo luogo, autorevolissimo germanista) tenta di negarlo inventando il Meta-N., come vedremo meglio.
Da notare la presentazione grafico-editoriale (quella italiana ricalca alla perfezione quella originale), in forma di indigeribile mattone: ogni paragrafo si presenta come un unico blocco, senza “punti e a capo”, senza respiro o spazi di sorta, quasi un tentativo consapevole di respingere il lettore “comune” e di selezionare tra di essi quelli “bisognosi” di un verbo indiscusso.
Discorso analogo vale per quanto speso da autorevoli studiosi che negli anni ’60 hanno tentato una riabilitazione di N. scoprendo qua e la tracce positive di connotazioni anti-dialettiche da una parte o, peggio, anti-metafisiche da un’altra. Tanto, si può starne certi, in N., cercando a fondo, si può rinvenire tutto ciò che si vuol cercare. Ma solo se si trascura quello che è il nocciolo duro del pensiero nietzscheano, quello che scorrendo attraverso il fondo delle sue opere precedenti, si chiarisce e si esplicita in G.dM.
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I manuali di storia di filosofia che abbiamo studiato nei licei ci hanno all’ unanimità spiegato che N. fu un grande e profondo filosofo le cui posizioni su alcuni temi furono “strumentalizzate” dai successivi movimenti nazifascisti (v. anche la lezione di M.Ferraris che analizzeremo più avanti).
Ebbene, la lettura di GdM risolve alla radice questa questione: GdM è il manifesto programmatico filosofico ed ideologico di ogni nazifascismo passato e presente, che non ha così avuto bisogno di frugare nel pensiero dei filosofi reazionari del remoto passato per costruire una base “filosofica” alla loro prassi di violenza e rapina, giacché questo lavoro era stato eseguito puntigliosamente da F.N. Il pensiero di N. non è stato “strumentalizzato” dal nazifascismo, si può semmai affermare che sia stato applicato, materializzato puntigliosamente dagli ambienti reazionari ed imperialisti dell’epoca e delle epoche a seguire, ad uso e consumo dei quali era stato accuratamente elaborato, che ne hanno tratto immediato e immenso vantaggio. Se N. fosse vissuto più a lungo, come la sorella Elisabeth, curatrice e promotrice delle sue opere, fanatica antisemita, avrebbe assistito alla concreta e materiale edificazione dei suoi edifici mentali.
L’opera di N., ben compendiata in GdM, ha costituito il fondamento teorico, la “piattaforma culturale”, l’alibi filosofico, sul quale si è innestata la aggressione nazifascista al resto del mondo che è costata all’umanità decine di milioni di morti e di tragedie inenarrabili, cosa della cui possibilità N. era ben consapevole, come vedremo più avanti. Nessun autore nella storia umana può vantare un effetto talmente devastante sulla vita dei popoli.
A ben riflettere, ancora oggi, sullo sfondo ideologico della “missione imperiale” degli USA, l’ombra dei “destini e dei diritti” delle razze superiori, riappare prepotentemente.
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Un’altra variante della vulgata della “strumentalizzazione” è quella secondo la quale non delle autentiche opere di N. si sia appropriato il nazifascismo, ma della versione manipolata dalla sorella Elisabeth che delle opere di Federico si appropriò per fini politici (fu una accanita sostenitrice del nascente nazionalsocialismo) ed editoriali.
La versione autorevolissima che abbiamo utilizzata, traduzione di M. Masini, edizione diretta e curata da G.Colli e M. Montanari, è certamente esente da tale “virus”.
La presunta strumentalizzazione “aliena” di quello che vene da troppe parti definito come un pensiero di straordinaria e rivoluzionaria profondità filosofica, permette a moltissimi studiosi, anche di formazione lontanissima da quella nietzcheana, di esprimere un giudizio di sostanziale positività sull’ opera complessiva di F.N. Vediamo intanto il parere di personaggi già intrinsecamente predisposti al recepimento del messaggio N-ano.
Scrive Mussolini solo 5 anni dopo la morte di N.: “Il superuomo, ecco la grande creazione nietzscheana. Quale impulso segreto, quale interna rivolta hanno suggerito al solitario professore di lingue antiche dell’università di Basilea questa superba nozione? Forse il taedium vitae, della vita quale si svolge nelle odierne società civili dove irrimediabile mediocrità trionfa a danno della pianta-uomo. E Nietzsche suona la diana di un prossimo ritorno all’ideale (….. )Per comprenderlo verrà una nuova specie di spiriti liberi fortificati nella guerra, nella solitudine, nel grande pericolo, spiriti che conosceranno il ghiaccio e i venti, le nevi dell’alta montagna e sapranno misurare con occhio sereno tutta la profondità degli abissi, spiriti dotati di un genere sublime di perversità, spiriti che ci libereranno dall’amore del prossimo, della volontà del nulla, ridonando alla terra il suo scopo e agli uomini le loro speranze – spiriti nuovi, liberi, molto liberi che trionferanno su Dio e sul Nulla!” (su “Il pensiero romagnolo”, 1905 in De Felice, M. il rivoluzionario).
Il giovane Mussolini è tra i primi in Italia ma non certo il solo a santificare il pensiero di F.N. In quegli anni A.Oriani compone un’opera di evidente derivazione nietzschena, La rivolta ideale, e G. D’Annunzio, suo entusiasta estimatore, alla sua morte compone una Laude in suo onore (“In morte di un distruttore”, di ben 443 versi, in “Elettra, 1904), ma già nel 1892 aveva osannato il “folgorante vate” ancora vivente.
Nel corso del secolo le attestazioni di straordinarie doti di pensiero nei confronti di F.N. sono infinite. Venendo a questi ultimi decenni, l’ atteggiamento della critica culturale nei suoi confronti spazia da una fanatica adesione alla sua presunta abissale profondità (v. “filolosofico.net”: il folgorante profeta del superuomo), ad un più pacato, ma complessivamente ammirato giudizio da parte di illustri critici di cui esamineremo alcune posizioni.
Ebbene, una lettura critica delle sue opere, messe a fuoco da N. in G.d.M., rende a mio avviso obbiettivamente incomprensibile ogni giudizio assolutorio o, peggio, entusiastico nei confronti della sua opera.
Esamineremo via via in questo quadro l’incomprensibile giudizio di personaggi di grandissimo rilievo quali G.Lukàcs, D.Losurdo, L. Geymonat, G. Vattimo e persino di Primo Levi, sopravvissuto alla immane tragedia di quei campi di sterminio di cui N. fu in fondo il primo teorico.
Ed è su questo terreno che intendiamo scendere per comprendere che tipo di filosofia viene espressa nelle sue pagine, o, meglio, se quanto emerge sia filosofia.
Il XIX° secolo è stato,al di la di ogni ragionevole dubbio, l’incubatoio dei fatti storici puntualmente verificatosi nel XX°. Di per se, si tratta di una osservazione che potrebbe apparire banalmente valida per ogni coppia di secoli, ma così non è, o meglio non lo è con la forza e la pregnanza che ha avuto nei due secoli appena trascorsi.
Perché nell’ ‘800 la storia del pensiero umano ha “tirato le reti” di un processo complesso e tormentato durato 24 secoli ed ha posto le basi per un superamento radicale di secoli di incrostazioni scolastico-metafisiche, recuperando quel pensiero critico che da due millenni tentava di affiorare all’interno di strutture di potere politico che erano sempre riuscite a soffocarlo,
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materialmente, nel sangue.
Com’è ovvio, millenni di potere armato, con potenti armi, sia materiali che ideologiche, non potevano cedere il passo senza colpo ferire.
Mentre da una parte con il razionalismo scientifico si consolida una finestra nella cultura mondiale che permette al pensiero filosofico di ripartire da solide basi logico-critiche- razionali, e con Darwin si spalanca un’altra finestra sulla perenne dinamicità della natura, uomo a fortiori incluso, dall’altra le vecchie classi dei detentori del potere debbono costruire basi adeguate alla necessità di resistere e contrattaccare.
In questo quadro, nel 1869 l’ Istituto di Filologia dell’ateneo di Basilea scopre questo studente di filologia della Università di Lipsia che aveva scritto opere giudicate interessanti, all’interno dello scontro culturale particolarmente virulento nei paesi di cultura tedesca, e decide di puntare su quel promettente ragazzo.
Il giovane Nietzsche non tradirà mai la fiducia accordatagli, che si materializzerà in assegni mensili praticamente a vita, allorchè, dopo solo 7 anni, egli deciderà di interrompere l’ esperienza accademica.
Rimangono nel mistero però altri finanziatori di N., che poté passare la vita nelle più rinomate e costose “stazioni di soggiorno e cura”, come si diceva allora, d’Europa, in una continua ricerca di condizioni ambientali che ne alleviassero le infelici condizioni di salute. Condizioni di salute che richiedevano altresì il continuo ricorso a medici e farmaci, certo non dispensati da alcun welfare.
Visse infatti tra i più rinomati centri turistici dell’ Engadina e di altre rinomate località svizzere, al fresco nella stagione estiva, e poi Salerno (dove pare fosse ospite di una aristocratica dama), la Costa Azzurra, Genova, Rapallo, Cannobio, Roma,Venezia (in un alloggio con vista su Piazza S. Marco, tiene a precisare!), Messina e Taormina, nella stagione fredda, senza che ai biografi risultino altre entrate oltre a quelle, modeste, del vitalizio universitario da baby pensionato (risultano 3000 franchi/annui) e quelle minime degli editori che non riuscivano a vendere le sue pubblicazioni, di cui anzi risulta che spesso si accollasse i costi.
E’ questo a mio avviso il vero, profondo, mistero di Nietzsche.
Inquieta, ma anche chiarisce, in questo contesto dei misteriosi rapporti di N., quanto annota in una lettera del 14.4.’87 ( l’anno stesso della pubblicazione di GdM):
“L’Europa intera non ha la minima idea delle decisioni spaventose attorno a cui ruota il mioessere tutto intero…. e non sa che con me si prepara una catastrofe della quale io conosco il nome, che tuttavia non profferirò mai.”
Con chi aveva segreti rapporti il sig. N.? Chi erano i suoi committenti e finanziatori? Non lo sappiamo, ma certamente si trattava di ambienti guerrafondai e revanscisti che avrebbero condotto, nel giro di pochi decenni, l’Europa alla catastrofe della grande guerra, e della sua prosecuzione ancora dopo venti anni. Decine e decine di milioni di morti: mai nella storia gli scritti di un uomo hanno giustificato, preparato ed esaltato un processo che, pur evidentemente alimentato da materiali interessi economici, abbia causato una così immane tragedia.
Alcune date:
1844 nasce a Roecken (Prussia) da una famiglia di pastori luterani, mamma casalinga, condizioni economiche medie.
’64 Si iscrive all’università di Bonn, poi di Lipsia
’66 volontario nell’esercito prussiano
’69 assunzione all’ Università di Basilea, senza avere ancora conseguito il dottorato – si dichiara apolide e contrario ad ogni nazionalismo
’70 allo scoppio della guerra franco-prussiana si arruola volontario nell’esercito prussiano. Poco dopo torna a dichiararsi apolide
76 si congeda, dopo 7 anni, dall’insegnamento
’78 ottiene il vitalizio di 3000 franchi/anno– scrive Umano, tropo umano
Pag 9
’79 Il viandante e la sua anima
’80 Aurora
’81 L’eterno ritorno
’83-’85 i 4 libri di Così parlò Zarathustra
’86 Al di la del bene e del male
’87 Genealogia della morale
’88 Il caso Wagner, l’Anticristo, Ecce Homo
’89 (3 gennaio) Crollo definitivo nella follia, fino alla morte che avviene nel 1900
Come si nota, GdM è sostanzialmente conclusione e fondamentale chiarimento del fiume di contraddittorie considerazioni sparse nelle infinite pagine che la precedono e di cui abbiamo citato solo le più note. Le opere dell’ 88 poco o nulla aggiungono, sul piano filosofico, a quanto già compiutamente espresso con GdM.
SCHEMA DELL’OPERA
Abbiamo ritenuto utile un breve schema dell’opera prima di esaminarne i dettagli perché in essa, malgrado le asserzioni dell’ introduzione, N. non riesce ad essere (ancorchè meno criptico), meno involuto, compiaciuto e contorto che nelle altre opere che hanno preceduto GdM.
Delle variopinte contraddizioni che appaiono nei suoi scritti si son fatti forti decine di studiosi per sostenere le più svariate e pittoresche tesi sulla “vera” natura del N. Filosofo.
Periodicamente qualche studioso rintraccia nella lettura dei suoi scritti un “nuovo” N. Ma è solo la sostanziale ondivaga ambiguità della sua prosa (e, in altre opere, della sua poesia) a permettere un tale ventaglio di pareri.
E gli era ben noto che già i suoi lettori coevi esprimessero pareri fortemente difformi sui suoi scritti e sul loro contenuto profondo.
Scritti che avevano assunto tutti i possibili moduli stilistici dell’epoca, ma sopratutto la forma aforistica, e a cui egli esplicitamente ritiene di dover dare con GdM la interpretazione autentica e definitiva.
Scrive infatti, a tal proposito, con rara modestia, nella Prefazione: pag 10,11:
“ Se questo scritto sarà per qualcuno incomprensibile e urtante all’orecchio, non credo che si debba necessariamente imputarne a me la colpa. Esso è abbastanza chiaro presupponendo, come io presuppongo, che si siano prima letti i miei scritti precedenti, non senza lesinare qualche sforzo: a dire il vero, non sono facilmente accessibili. Per quanto riguarda, a esempio, il mio « Zarathustra», non può considerarsi suo conoscitore chi non sia stato di volta in volta ora ferito a fondo ora estasiato a fondo da ognuna delle sue parole: solo in questo caso, infatti, potrà godere il privilegio di sentirsi riverentemente partecipe dell’elemento alcionio da cui è scaturita quest’opera, della sua solare chiarità, della sua lontananza, vastità e sicurezza. In altri casi presenta difficoltà la forma aforistica; ciò è dovuto al fatto che oggigiorno non si dà sufficientemente importanza a questa forma. Un aforisma, modellato e fuso con vigore, per il fatto che viene letto non è ancora «deci-frato»; deve invece prendere inizio, a questo punto, la sua interpretazione, per cui occorre un’arte dell’interpretazione.”
In GdM, come risulta evidente, N. ha fretta ad entrare rapidamente nel nucleo della sua visione del mondo, e già il primo capitolo dell’opera è “buono e malvagio – buono e cattivo”.
Sorvoliamo sull’ infelice “incipit” di natura filologica nel quale giustifica la ricerca di valori profondi alle parole “buono” e “cattivo” basandosi su fantasiose varianti lessicali in varie lingue Pag 10
(Gut, buono, “evidentemente” scaturente da Gott, Dio, Sclecht, cattivo, “evidentemente” scaturente da Sclicht, semplice, ma anche plebeo, ignobile, volgare), – la filosofia universale di N. non vale nelle lingue neolatine? – ed iniziamo a penetrare nel cuore della Genealogia.
Siamo al primo concetto-base dell’opera: la perenne malvagità dell’essere umano, frutto della perenne malvagità della natura.
Concetto questo che ribadisce in forma esplicita quanto costantemente emerso in forme ambigue nella precedente opera di F.N.
Concetto che compare o affiora comunque in ognuna delle infinite pagine della produzione Nietzscheana, e che, a mio avviso, è la trasposizione “colta” della banalità delle chiacchiere da Bar dello Sport:
“E si, zio Peppe, è inutile stare a fa’ chiacchiere, l’uomo sempre malvagio fu e sempre malvagio è e sarà. Tutto il resto sono chiacchiere perse”.
E’ in questo squallore il fondamento basilare, la piattaforma cementizia, la certezza metafisica, sulla quale erigerà i suoi punti di forza.
Non vi è traccia nell’opera di questo “grande” del XIX sec. dei concetti di sviluppo, di crescita, di dinamismo, di evoluzione.
La sua infinita erudizione, se analizzata con un minimo di cura, senza farsi travolgere dal timor panico che la sua esibizione continua di cognizioni incute, presenta dei vuoti abissali , ad iniziare dalle opere del pensiero greco di cui ignora gli aspetti più fecondi, quelli degli scienziati filosofi che aprirono all’ umanita’ le porte del pensiero critico.
Sulla “NON CONOSCENZA” da parte di N. riguardo a metà del pensiero umano come sviluppatosi nel corso dei secoli, parleremo più avanti.
Al più cita con sufficienza Epicuro, per confutare aspetti in fondo secondari del suo pensiero.
Nelle sue continue citazioni e riferimenti al mondo greco, giganti come Talete, Pitagora, Euclide, Archimede, sono del tutto assenti, o, taluni, citati con frettolosa sufficienza. Legge Democrito nel ’68, se ne dichiara entusiasta, poi rapidamente lo perde di vista.
Non vi è traccia del risveglio culturale del periodo rinascimentale (qualche, colmo di sufficienza, apprezzamento al rinascimento italiano citato solo nell’ ambito di una sua polemica contro il Cristianesimo e contro il giudaismo).
Tutta la sua virulenta e velenosa polemica si esercita contro le varie forme del pensiero idealista che lo precede, ben rimanendone comunque fermamente al suo interno, come vedremo.
Il suo “Super-uomo” (o anche oltre-uomo,veramente irrilevante appare la querelle sulla corretta versione italiana di “ober-mensch”) che dovrebbe “demolire i dogmi” di ogni precedente filosofia, in realtà li soppianta con uno ben più assurdo e feroce, quello del ritorno alla bestialità primordiale.
Cita più volte a lungo Dȕhring (misero comunista di strada, o cose del genere) ma mai cita Engels che con Dȕhring aveva duramente ed efficacemente polemizzato su ben altri livelli, mai cita il suo contemporaneo e certamente in quegli anni ben noto Karl Marx.
Cita invece, con evidente sufficienza, “il dott. Darwin”, che poi invece strumentalmente utilizzerà per supportare le sue teorie sulla selezione della razza, deformandone ad arte il pensiero, anche in questo caso con considerazioni degne della banalità degli avventori di un Bar dello Sport e non di un illustre maestro della filosofia.
Questo, e solo questo, è l’ ”ambito filosofico” nel quale vedremo muoversi F.N.
Più volte si definisce uomo di scienza, senza minimamente accennare a quale scienza si riferisca, quale sia il suo concetto di “scienza”.
Secondo M.Fini :” Nietzsche sapeva poco o nulla anche di scienza. Ma qui cercò, negli anni, di recuperare rendendosi conto che delle conoscenze scientifiche gli erano indispensabili anche per fare filosofia. Ovviamente rimase sempre un dilettante”. Aggiungo: sulla scienza di cui ben poco sapeva, scrisse addirittura un’ opera, considerata fondamentale, “La gaia scienza”. E in particolare sentenziò a lungo con estrema sufficienza sulla matematica, di cui conosceva a malapena la sua caricatura fornita da Platone.
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Sul rapporto con la scienza, esistono comunque pareri controversi, come è ovvio che sia data la continua serie di dietro-front di N. su una infinita serie di problematiche. Parleremo dopo, ad es., del parere di P. Gori che colloca N. addirittura all’interno del movimento di riforma della epistemologia del XIX sec.
Il ritrovamento postumo nella biblioteca personale di N. di testi di scienziati della sua epoca e delle precedenti ha condotto alcuni autori alla conclusione che N. fosse un conoscitore delle problematiche scientifiche e che della “crisi della scienza” parlasse con piena cognizione di causa. In realtà, esaminando i contenuti dei riferimenti che appaiono nelle sue opere (quelli a Darwin, per tutti), appare come egli quei testi li abbia appena sfogliati, o tentato di strumentalizzarli senza coglierne minimamente il senso profondo.
Utilizza strumentalmente Boscovich, si appropria di alcuni suoi percorsi argomentativi in uno scritto divenuto noto come “time-atom theory” (1873), mostrando di averne una comprensione superficiale e distorta. Eppure tale scritto viene spesso presentato come straordinario esempio di innovazione in fisica.
Ma in ogni caso, nove anni dopo scriverà in “La gaia scienza” una sentenza definitiva sul presunto rapporto di contraddizione tra il concetto di “punto” in matematica e di “punto materiale” nella realtà fisica che contraddice radicalmente il punto di vita di Boscovich che tanto aveva dichiarato di apprezzare.
Una cosa appare certa: il suo tentativo di appropriarsi di temi collegati allo sviluppo scientifico per riversarli nel calderone confuso delle argomentazioni a sostegno della sua tesi ideologica. Nel corso della stesura di GdM N. trova un muro insormontabile: ciò che può essere definito “scienza” procede per percorsi in definitiva opposti ai suoi, alla sua metafisica degli abissi della storia camuffata da lotta alla metafisica. Ed allora inizia, da pag. 89 e fino alla conclusone, ad elaborare un piano caotico, confuso e contraddittorio per screditare senza remore nè tentennamenti gli uomini che la scienza hanno costruito: la lotta agli “ideali ascetici”, in cui mescola in un pastone informe preti e scienziati, filosofi del passato, e tutti coloro che non riesce ad imbarcare all’interno della sua improponibile visione della storia.
Su una cosa non può però esservi alcun dubbio: il “cuore” del nietzscheanesimo, l’aspetto politico, il diritto alla prevalenza assoluta della razza vincente, procede, esso si, senza piroette di sorta in ogni sua opera, con una coerenza rigorosa e mai scalfita.
G. Colli:”Come rigore e approfondimento di una ricerca logico-razionale (è questo che viene inteso per filosofia nel mondo moderno) Nietzsche non è un filosofo.”, (La ragione errabonda, p. 93). Non si può non concordare. Ma riguardo a tutto ciò che non è rigore e approfondimento logico-razionale, N. risulta obbiettivamente solo un intruglio di affermazioni banali, contraddittorie, volte solo a soddisfare via via le esigenze dei suoi vari committenti, uniti solo dalla esigenza di disporre di un prodotto finito atto a giustificare violenza, soprusi ed espropriazioni. Atto alla assoluzione postuma delle più atroci infamie, ed alla assoluzione preventiva delle medesime.
Al di la della ricerca logico-razionale? Il celebrato fresco vento antidogmatico, il regno delle emozioni che sovverte il regno della logica?
Un coro di giudizi assolutori evidenzia in N. una liberatoria volontà di demolire antiche incrostazioni di pensiero, la morale corrente, la teosofia, l’illuminismo, la intera metafisica sette-ottocentesca, come che da tale opera demolitoria scaturisse un pensiero critico, scevro da pregiudizi ideologici, una ventata di freschezza filosofica.
GdM tronca alla base ogni interpretazione del genere: dalla demolizione (peraltro rozzamente approssimativa e mai dimostrata a fondo) delle correnti di pensiero a lui precedenti, N. fa scaturire, senza la minima consistenza intellettuale, il pensiero a-critico per eccellenza, la sostituzione della verità con la cieca fede nell’ assoluto potere del vincente: il vincitore comanda, il plebeo deve dimostrare. Ne riparleremo a commento della lezione di M. Ferraris.
Tornando al testo, N. mira rapidamente al nocciolo della questione, la trasmutazione dei concetti di “buono” e “cattivo”, “buono” e “malvagio”.
Trasmutazione che pretende di costituire l’elemento “rivoluzionario” del suo pensiero, ciò che farà Pag 12
rabbrividire le ingioiellate damine della buona nobiltà e dell’ alta borghesia prussiana e svizzera e che darà ossigeno ai loro ultrareazionari mariti e amanti, sempre in cerca di sponde culturali per consolidare e sviluppare un millenario potere da troppe parti messo in discussione.
L’unica traccia di conseguenzialità in tanto delirio è la ricerca degli archetipi della bestiale ferinità nella storia dell’uomo. Nota che ogni bestia si nutre tramite l’assassinio di altre bestie, che nessuno disprezzerebbe un’aquila che sbrana un agnellino (ma gli erbivori?). Ed essendo l’uomo indubitabilmente una bestia, l’assassinio del più debole non solo gli è congeniale, ma è il primo, il massimo valore morale. E’ questo il nesso ultimo di ogni costrutto nietzschiano, come leggeremo più in dettaglio nel testo.
Nessun dubbio, nessuna incrinatura su questa “evidente”, granitica, verità.
Basata su cosa? sulla più banale e inconcludente applicazione della più banale formulazione della logica aristotelica, il sillogismo, per il quale siccome: a)le bestie sono giustamente sanguinarie, b) l’uomo è una bestia, >> c) l’uomo è giustamente sanguinario.
Si noti solo come, dove lo ritiene comodo e conveniente, N. utilizza il disprezzato Aristotele a fondamento essenziale di tutto il suo costrutto “filosofico”.
Da parte di uno che mille volte afferma che ogni verità è fallace illusione e che occorre rimuovere in via definitiva ogni ricorso ad essa.
Mai viene sfiorato dal dubbio che il genere umano, come ogni vivente, è una entità in continua evoluzione, che in Homo Sapiens la prima evoluzione è quella neurologica e quindi razionale e logico-cognitiva. Per essere sfiorato da tale dubbio avrebbe dovuto conoscere alcuni elementi dello sviluppo della scienza a lui contemporanea (ad es. delle neuroscienze, già ben consolidate nel XIX sec.) .
Ma il prof. N. conosceva e memorizzava a fondo la componente arcaica, mitologica, metafisica, della cultura umana, (a partire da quella che definiva “dionisiaca”), mentre ignorava altrettanto a fondo (o, peggio, fingeva di ignorare per praticare una sorta di censura preventiva?) gli sviluppi di quella filosofia naturale che già almeno dal V° sec a.c. ,proprio in contrapposizione alla visione mitica e mistica, sovrannaturale, “dionisiaca”, si proponeva la valorizzazione dello sviluppo della componente logico-razionale e sociale di Homo Sapiens.
Avrebbe appreso in tal caso che l’apparato neurofisiologico dell’uomo evolve con un processo filogenetico verso il consolidamento e lo sviluppo della neocorteccia che mette sempre più in secondo piano la funzione degli organi cerebrali primitivi quali il sistema limbico (amigdala in particolare) centri della aggressività ferina, tanto definitivamente centrale nell’ intera opera nietzscheana.
Evidentemente N., tanto attento ai rapporti tra Eschilo ed Euripide, alla filosofia buddista, e a tanto altro, non si degnava di informarsi sui lavori, ad es. di un Haeckel, suo quasi coetaneo e conterraneo che, pur con svariate ingenuità, si cimentava in quegli anni, sulla base dei lavori di C. Darwin, attorno a fondamentali lavori sulla filogenetica umana. Ci chiediamo cosa avrebbe fatto dopo avere sfiorato un testo di G.Boole.
Meno che mai poteva occuparsi di sforzarsi di comprendere la potenza filosofica del rapporto tra materiale-concreto ed astratto in Archimede e poi in Leonardo, Copernico ,Galilei, e via via fino ai suoi giorni. Se lo avesse fatto non avrebbe scritto tante sciocchezze sulla matematica di cui conosceva a malapena, come abbiamo detto, la parodia che ne dà Platone e di cui fa ulteriormente la parodia.
N., il demolitore della metafisica, come infinite volte si definisce, costruisce questa verità assoluta, il primato storico e quindi etico, della malvagità assassina, come un assoluto mistico, una metafisica totale, granitica, mai scalfibile o confutabile se non da esseri indegni, miseri, mal riusciti. (e sui mal-riusciti vedremo come la soluzione di N. sia quella, poi divenuta ben nota, che assumerà la
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definizione di soluzione finale). I malriusciti debbono perire, questo è il principio del nostro amore per gli uomini” (L’Anticristo, Adelphi, p. 169, nonchè GdM, pag 3 e segg.). Vedremo come per malriuscito non intenda solo e tanto portatore dalla nascita di handicap ma, in senso ben più ampio, chiunque non fosse capace di aderire alla sua definitiva costruzione ideologica in favore del pensiero forte, anzi fortissimo, a difesa di poteri fortissimi, anzi inscalfibili.
Prima di passare ad illustrare come in realtà briganti assassini e condottieri sterminatori siano il meglio di quanto l’umanità abbia mai prodotto nel corso della storia, N. sente il bisogno di blindare ogni suo discorso da ogni possibile contestazione introducendo il secondo pilastro del suo pensiero: il ressentiment che può tradursi con “risentimento rancoroso” ma che potremo sinteticamente esprimere come “rancore”.
Da ogni pagina di GdM emerge questo escamotage polemico, l’uomo del rancore. E’ il grande colpo di scena dell’intero pensiero di F.N., la mossa vincente del vero giocatore di bussolotti, il trucco epistemologico per eccellenza, della famiglia di quello in uso tra i preti, che a chi dimostra la incongruenza dell’ intero costrutto teologico dicono: pregherò affinchè il Signore ti apra gli occhi e ti faccia capire la miseria del tuo ragionamento logico.
Chi è l’uomo del rancore? Sono tutti gli uomini, ad eccezione dei condottieri sterminatori e dei briganti assassini (e di Federico Nietzsche, beninteso!). Tutti coloro cioè che non si sottomettono alle gesta dei conquistatori schiavisti.
Con incredibile piroetta logico-semantica, chi NON si sottomette al regime, politico o ideologico poco importa, del vincitore, è gregge, massa amorfa di rimuginatori rancorosi.
Al contrario, chi accetta entusiasticamente “una obbedienza quale non fu mai raggiunta da alcun ordine monastico,” esprime “la vera libertà dello spirito”, v. avanti.
Se non concordi con le asserzioni nietzscheane sei un uomo del rancore, un miserabile sconfitto, un imbelle perdente, un nulla in mezzo ad un gregge che va ruminando il proprio rancore tentando di distruggere quanto di sublime va realizzando o ha realizzato la classe degli aristocratici e biondi dominatori.
Il concetto di “uomo del rancore” è il secondo concetto-base della piattaforma su cui N. costruisce,attraverso quest’ opera, il suo pensiero.
Si raggiunge il paradosso se si considera che non vi è una pagina, che sia una, in cui N. non esprima profondo e totale rabbioso rancore e disprezzo nei confronti di ogni suo predecessore (con le sparute eccezioni alle quali accennavamo) o contemporaneo. Se dovesse venire codificata la categoria dell’uomo del ressentiment, F.N. ne sarebbe il perfetto esempio da manuale!
All’interno di quello che nella intera opera di F.N. è in realtà il leitmotiv implacabile, la autocontraddittorieta’ , non esiste costrutto o pensiero in cui N. non manifesti, lui si, il suo risentimento rancoroso verso la categoria o la persona citata. Spesso invero il suo rancore si esprime come aperto disprezzo dell’avversario con cui imposta una rancorosa polemica, tanto da suggerire che tale costante atteggiamento altro non sia che una sorta di sorda invidia nei confronti di chi sia stato dotato dalla sorte di normali condizioni di salute piuttosto che di una sequenza di eventi patologici su cui decine di medici e psichiatri esprimevano diagnosi spesso contraddittorie e sempre inefficaci.
Con riguardo all’ autocontraddittorietà, che ha fatto la fortuna di decine di critici che hanno avuto la possibilità di sbizzarrirsi con chilometrici saggi su questa o quella affermazione che si rinviene nelle opere di N. vorrei notare come, con l’autoaffermazione della altissima complessità dei suo precedenti aforismi, (pag. 11) egli statuisce una volta per sempre in GdM la definitva, l’autentica, interpretazione dei suoi scritti.
Ma sono sopratutto le piroette a 180° che non possono che condurre alla conclusione che in quest’uomo la unica giustificazione sul piano mentale sia quella di gravi e concomitanti disfunzioni di competenza psichiatrica. L’autocontradditorietàè l’elemento che caratterizza OGNI opera di F.N. E d’altronde i medici che lo ebbero in cura parlarono, all’interno di tante ipotesi, di
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costanti elementi dissociativi. Ma un’altra chiave di lettura è possibile, quella della continua ricerca di consenso, all’interno del novero dei suoi interlocutori, di una risposta buona per ogni segmento di uditorio, se è vero che ogni critico riesce a trovare nell’ opera nietzscheana un qualche aspetto positivo.
Comunque sia, su questo immobile zatterone, reso inaffondabile dall’escamotage di tacciare come miserabile sconfitto ogni dissenziente, viene edificato quello che è per N. il pilastro, anzi il monolito, l’obelisco, del suo pensiero: l’attribuzione di valore positivo universale alla malvagità sadica del conquistatore.
E’ questo il terzo concetto base del pensiero di F.N. Tutto il resto, la volontà di potenza, il super (oltre?)uomo (il novello uomo-dio, che sostituisce con una nuova metafisica il dio della tradizione giudaico-cristiana) sono solo corollari, validi a comprendere meglio i tre punti suesposti ma che nulla aggiungono o tolgono. E l’eterno ritorno, che ribadisce ancora con più forza la definitiva staticità dell’esistente secondo N, blinda, una volta per tutte,le possibilità di ricorso al ragionamento critico e dialettico.
Su cosa si fonda il valore positivo della malvagità sadica e del “rovesciamento della morale”? Non abbiamo rinvenuto una traccia, un accenno, al benché minimo percorso giustificativo di una scelta di tale devastante valore.
Aveva già scritto in “Zarathustra” (parte quarta, dell’uomo superiore):
«L’uomo è cattivo» — così mi dissero, per confortarmi, tutti i saggi. Ah! fosse vero! Poi che la malvagità è la miglior forza dell’uomo. «L’uomo deve diventare migliore e anche più malvagio»: — questo io insegno. Un maggior grado di malvagità, e necessario perché prosperi il superuomo.
Ma vedremo di peggio. Di molto peggio. Quello che abbiamo cercato invano è una traccia, un barlume di ragione, di conseguenziaità logica in quello che N. afferma, al di la, come già visto, della presa d’atto di una sequenza (a suo avviso ininterrotta) di comportamenti omicidi e sadici nella storia umana (e pre-umana).
ALCUNI PRIMI GIUDIZI DELLA CRITICA
Ci lascia più che perplessi la conclusione della pur accurata nota introduttiva di Mazzino Montanari: “Se il metodo di N. può ancora aiutarci, allora l’unica forza che ci è rimasta per opporci al caos è quello della cultura, della Ragione”.
Ci vogliamo sforzare di intendere che con la cultura e la ragione si debba demolire il castello di deliranti follie nietzschene che ha costruito il delirante sottofondo delle peggiori esperienze che la storia umana abbia mai prodotto. Quello che non riusciamo a comprendere è come IL METODO di N. possa aiutarci, forse anche questo per farci capire come occorra un metodo del tutto opposto?
E meraviglia quanto scrive Primo Levi:
«Il verbo di Nietzsche mi ripugna profondamente; stento a trovarvi un’affermazione che non coincida con il contrario di quanto mi piace pensare; mi infastidisce il suo tono oracolare; ma mi pare che non vi compaia mai il desiderio della sofferenza altrui. L’indifferenza sì, quasi in ogni pagina, ma mai la Sciadenfreude, la gioia per il danno del prossimo, né tanto meno la gioia del far deliberatamente soffrire. Il dolore del volgo, degli Ungestalten, degli informi, dei non-nati-nobili, è un prezzo da pagare per l’avvento del regno degli eletti; è un male minore, comunque sempre un male; non è desiderabile in sé. Ben diversi erano il verbo e la prassi hitleriani»
Evidentemente, nell’ infinito magma degli scritti nietzscheani colmi di tutto e del suo contrario, gli erano sfuggite decine di affermazioni del tipo: (in questa “summa autentica” del pensiero (?) di F.N.,pag. 55):
“veder soffrire fa bene, cagionare la sofferenza ancora meglio – è questa una dura sentenza, eppure una antica, possente, umana, troppo umana sentenza fondamentale (…) Senza crudeltà non Pag 15
v’è festa, così insegna la più antica, la più lunga storia dell’uomo”.
Come ci ricorda E.Gavalotti, sia nella prima che nella seconda guerra mondiale “così parlò Zarathustra” costituiva parte del bagaglio obbligatorio di ogni ufficiale tedesco, cosa che ci fornisce una chiave di comprensione delle gesta ben note dei vari corpi militari tedeschi (e segnatamente delle S.S.) nelle due grandi guerre.
Nei suoi pur fondamentali saggi su F.N., G.Lukacs gli fornisce un giubbotto di salvataggio a mio avviso non meritato ed eccessivamente benevolo:
“si aggiunge, come circostanza favorevole per il suo sviluppo, che egli conclude la sua attività alla vigilia del periodo imperialistico. Ciò significa che egli, da un lato, ebbe modo di conoscere, nel periodo bismarckiano, tutte le prospettive delle lotte imminenti, fu contemporaneo della fondazione del Reich, delle speranze e delle delusioni ad essa relative, della caduta di Bismarck, dell’inaugurazione dell’imperialismo apertamente aggressivo ad opera di Guglielmo II…” “ Si determina cosí, per lui, la favorevole situazione di poter sollevare e risolvere in forma mitica, e secondo le tendenze reazionarie della borghesia, i principali problemi del periodo successivo”
Non appare chiaro perchè il XIX sec, nel quale antica nobiltà ed emergente borghesia gareggiavano ad accaparrarsi posizioni di dominio imperialista nel mondo intero, succeduto a secoli e secoli di feroce imperialismo europeo sugli altri continenti, secoli nei quali le dottrine nietzscheane, anche se non espresse con la chiarezza e la spocchia di un F.N., erano già ovunque ben praticate, potessero essere sconosciute a N. che avrebbe “concluso la sua attività alla vigilia del periodo imperialistico” .
Nella terza parte di questo lavoro, esamineremo i giudizi di altri studiosi.
LA CLANDESTINITA’ ELITARIA
Nella “cultura” dei gruppi ultrafascisti e neonazisti che hanno insanguinato con attentati terroristi l’Italia in questi decenni, spicca una chiara tendenza alla violenta espressione pubblica di istanze populistiche, spesso mutuate da storiche rivendicazioni della sinistra comunista e socialista, rivolte alla “plebe infame”, al “gregge”, alle “masse informi”,. Si riesce però a carpire, con accurate ricerche, un livello clandestino, di “elite”, , l’ ”alta cultura” degli eletti alle più alte sfere del pensiero reazionario, che dalle rivolte populistiche traggono linfa politica. (si scorrano, solo come primo esempio, le pubblicazioni del Centro Studi La Runa)
Il fondamento di questo atteggiamento è ben occultato in una breve riflessione di Zarathustra
Ma queste parole non sono dedicate alle orecchie lunghe. Giacché non ogni parola conviene a ogni bocca. Sono cose remote e delicate: e le unghie delle pecore non devono tentar d’afferrarle! (parte IV, n.5)
Il concetto è ripreso poi in GdM.
L’OPERA
(Una scrematura delle infinite autocitazioni ed autoesaltazioni renderà più agevole giungere ai nessi essenziali dell’opera. Grassetti nostri, corsivi dell’autore).
Nelle citazioni abbiamo generalmente sciolto il blocco grafico dei singoli periodi, introducendo spesso il “punto e a capo”, per rendere leggibile il tutto, salvo che in alcuni brani in cui abbiamo preferito lasciare l’intrico grafico dei concetti che permette di valutarne meglio la natura illogica occultata dietro la dichiarata conseguenzialità.
NOTA INTRODUTTIVA di Mazzino Montinari: riporta la lettera a Overbeck del febbr. ’87, l’anno stesso in cui compone GdM: (…) ”questi greci hanno un mucchio di cose sulla coscienza: la
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falsificazione di ogni cosa è opera loro, l’intera psicologia europea è malata di superficialità dei greci, e senza quel poco di ebraismo, ecc. ecc. ecc…”.
Per uno che sulla entusiastica e totale adesione alla storia della tragedia greca ed alla dicotomia tra “spirito dionisiaco” e “spirito apollineo” aveva costruito le sue fortune accademiche prima e letterarie dopo, non c’è male. E oltre tutto, negli stessi giorni, scriverà in GdM, pagine su pagine attorno agli stessi temi. La individuazione, nella cultura greca, di due componenti contrapposte, quella del mito ancestrale, del fato e delle entità sovrannaturali, e quella razionale, logico-cognitiva, è un fatto incontestabile. Solo che N. si schiera con la componente più arcaica, quella della tradizione orale e dei primi autori di tragedie, che definisce appunto “dionisiaca”, salvo poi, in questa lettera, a gettare tutto in un unico calderone, e, con ritrovata banalità, sentenziare contro “i Greci”, informe razza inferiore.
Parleremo più avanti dell’atteggiamento della maggior parte degli studiosi, tra cui Montinari, di fronte alla indecente posizione di N. che si rivela nella sostanza, esplicito, ossessivo e delirante appoggio politico alla volontà di una classe di opprimere incondizionatamente, fino alle estreme conseguenze, fino al genocidio, le altre. Prezioso supporto para-filosofico ai tanti regimi criminali che lo hanno immediatamente seguito, chiamiamoli fascisti, nazisti, o come vogliamo, la sostanza non muterà per una questione semantica. E’ il pensiero che si insinua nelle condizioni materiali (economiche, strutturali) e viene utilizzato (si badi bene, utilizzato, non strumentalizzato) per divenire tragico fatto. Anticipiamo qui che la soluzione, l’escamotage, usato, è quello di sostenere l’esistenza del meta-Nietzsche, di un N. da individuare attraverso quello che N. non ha mai detto e che sarebbe l’opposto di quello che N. ha realmente detto e che documenteremo in questo scritto. Dopo di che si lascia al lettore il giudizio definitivo.
PRIMA DISSERTAZIONE,
”BUONO E MALVAGIO”, “BUONO E CATTIVO”
pag 15 par 2 (…)“Tutti quanti costoro «gli storici della morale», com’è ormai antico costume dei filosofi, pensano in maniera essenzialmente antistorica; di questo non v’è dubbio (sic). Fin da principio risulta subito chiara la grossolana faciloneria della loro genealogia della morale, là dove si tratta di determinare l’origine del concetto e del giudizio di «buono». «Originariamente – decretano costoro – si sono lodate, e chiamate buone, azioni non egoistiche da parte di quelli nei cui riguardi venivano compiute, dunque ai quali esse tornavano utili: più tardi questa origine della lode è andata in oblio e le azioni non egoistiche, per il semplice fatto che venivano sempre lodate come buone in conformità alla consuetudine, sono state sentite come buone, come se in se stesse fosse qualcosa di buono ». Si nota immediatamente che questa prima deduzione racchiude già tutti i tipici tratti della idiosincrasia degli psicologi inglesi – abbiamo «l’utilità», «l’oblio», «l’abitudine» e infine «l’errore»; tutto messo a base di una valutazione, di cui l’uomo superiore è andato fino a oggi superbo, come di una specie di privilegio dell’uomo in generale. Questa superbia deve essere umiliata, questa valutazione deve essere destituita di valore: siamo arrivati a questo? Orbene, per me è in primo luogo un fatto palmare che da parte di questa teoria viene ricercato e collocato in una sede errata il fulcro nativo del concetto di « buono»: il giudizio di «buono» non procede da coloro ai quali viene data prova di «bontà»! Sono stati invece gli stessi «buoni», vale a dire i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire ad avere avvertito e determinato se stessi e le loro azioni come buoni, cioè di prim’ordine, e in contrasto a tutto quanto e ignobile e d’ignobile sentire, volgare e plebeo. Prendendo le mosse da questo pathos della distanza si sono per primi arrogati il diritto di foggiare valori, di coniare le designazioni dei valori: che cosa importava loro l’utilità !
Proprio in rapporto a una siffatta calda scaturigine di supreme valutazioni che ordinano e rilevano la gerarchia, il punto di vista dell’utilità è quanto di più estraneo e incompatibile vi possa essere: qui il sentimento è appunto pervenuto a un’antitesi con quel basso grado di calore che è il presupposto di ogni calcolatrice prudenza, di ogni computo utilitario …. Il pathos della nobiltà e della distanza, come ho già detto, il perdurante e dominante sentimento fondamentale e totale di una superiore schiatta egemonica in rapporto a una schiatta inferiore, a un «sotto» – è questa
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l’origine dell’opposizione tra «buono» e «cattivo». (Il diritto signorile di imporre nomi si estende così lontano che ci si potrebbe permettere di concepire l’origine stessa del linguaggio come un’estrinsecazione di potenza da parte di coloro che esercitano il dominio: costoro dicono «questo è questo e questo», costoro impongono con una parola il suggello definitivo a ogni cosa e a ogni evento e in tal modo, per così dire, se ne appropriano)”.
Nota 1L’esordio dell’opera è già una servile dichiarazione di acritica adesione alle esigenze di quelle classi che avevano sin dai primordi della storia imposto con la violenza e lo sterminio il loro potere sul resto dell’ umanità, bollata come volgare plebe.
Chiedere l’origine di tale costrutto? Sarebbe immergersi appunto in plebee pretese, tipiche della schiatta inferiore.
Così esordisce l’ ”opera definitiva” di F.N., con una serenata ai grandi (criminali, direi) del passato alla quale il lettore deve aderire, perché l’autore ne fornisce una garanzia.
E andiamo avanti. Troveremo una “dimostrazione” etimologica sulla base della dottrina filologica di cui N. era maestro (e docente a Basilea) che persino M.Montinari nella sua Nota Introduttiva dichiara “caduca e di non vero peso”, in realtà di una tragica stupidità, abbiamo già parlato dei “gott, gut”, di “schlecht, sclicht”, e continuiamo.
“la questione sostanziale //della genealogia della morale// è stata raggiunta solo tardivamente per l’influenza rallentatrice che ha esercitato il pregiudizio democratico….E questo fin nell’ambito, in apparenza il più oggettivo della scienza naturale e della psicologia, come risulterà dal semplice accenno che dovremo fare a questo punto. Ma del marasma che questo pregiudizio, una volta che si sia disfrenato fino all’odio, possa arrecare particolarmente alla morale e alla storia, è una testimonianza il famigerato caso di Buckle; il plebeismo dello spirito moderno, che è di origine inglese, irruppe ancora una volta nel suo terreno natale con la violenza d’un vulcano di melma e con quella eccessivamente sapida, sgangherata, triviale eloquenza con cui hanno sino a oggi parlato tutti i vulcani.
Riguardo al nostro problema, che può essere chiamato, a buon diritto, un problema silenzioso, e che si rivolge, esigente com’è nella scelta, soltanto a poche orecchie, è di non scarso interesse stabilire come in quelle parole e in quelle radici, che hanno il significato di «buono», traluca ancora, in guisa multiforme, la sfumatura principale riguardo alla quale i nobili si sono sentiti appunto uomini di rango superiore. Per la verità, nella maggior parte dei casi, essi si attribuiscono nomi forse semplicemente sulla base della loro superiorità di potenza (come «i potenti», «gli eroi», «i condottieri ») o sulla base del più evidente segno peculiare di questa superiorità, nomi, a esempio, come «i ricchi», «i possidenti» (tale è il significato di arya; e analogamente nell’iraniano e nello slavo). Ma altresì sulla base di un tipico tratto distintivo: e questo è il caso che qui ci interessa. Chiamano se stessi, per esempio, «i veridici» (…)
In latino, malus potrebbe essere designato l’uomo volgare, in quanto individuo dal colore scuro, soprattutto nero di capelli (« hic niger est», l’ autoctono preariano del suolo italico, che per il colore della pelle si distaccava, con la massima evidenza, dalla bionda razza dominante, cioè quella ariana dei conquistatori : il gaelico mi ha quanto meno offerto il caso esattamente corrispondente –fin (per esempio nel nome Fin-Gal), il termine distintivo dell’aristocrazia e infine il buono, nobile, puro, originariamente la testa bionda in antitesi agli scuri abitanti primevi dai capelli neri. I Celti, sia detto incidentalmente, erano senz’altro una razza bionda; si cade in errore se si mette in relazione a una qualche origine celtica o a una qualche mescolanza di sangue – come fa ancora Virchow – quelle zone di una popolazione completamente nera di capelli che si possono osservare sulle più accurate carte etnografiche della Germania: è piuttosto la popolazione tedesca preariana a predominare in quei luoghi. (La stessa cosa vale all’incirca per l’intera Europa : in sostanza, la razza sottomessa ha finito per riprendere qui il sopravvento, con il suo colore, la forma larga del cranio e forse perfino con i suoi istinti intellettuali e sociali: chi ci garantisce che la moderna democrazia, (…) e specialmente quella tendenza alla commune, alla forma più primitiva della società, che è oggi comune a tutti i socialisti d’Europa, non debba significare un Pag 18
enorme contraccolpo e che la razza dei conquistatori e dei signori, quella degli ariani, non sia per soccombere, anche fisiologicamente?)”
Nota 2: i socialisti sono,evidentemente, i rappresentanti di quella scura razza sottomessa che sta per far soccombere anche fisiologicamente la razza dei conquistatori e dei signori: un appello alla unità ed alla riscossa delle classi reazionarie ed imperialistiche politicamente in pericolo nel preciso momento storico della fine del secolo.
Che la commune fosse la forma più primitiva della società è cosa certamente tutta da dimostrare, se è vero che studiosi di alto profilo hanno ritenuto l’ordinamento sociale comunitario un colossale balzo in avanti rispetto alle (quelle si, primitive) forme aggregative di “branco” al seguito del “maschio alfa”, poste da N. a fondamento della umana convivenza della sua epoca e, sopratutto, del futuro.
Ma “dimostrare” quanto si afferma non fa parte delle abitudini dei veri signori, che ordinano, non dimostrano.
Sorge un dubbio: di che colore erano occhi e capelli di N.? Dalle foto dell’epoca sembrerebbe che egli fosse un tipico soggetto della bruna razza tedesca preariana. O forse di progenie polacca? Ne scaturirebbero considerazioni da aggiungere a quelle della nota 4 di cui alle pag. seg.
Proseguiamo, par. 7:
(…) “si avrà già indovinato con quanta facilità la maniera sacerdotale di valutazione può distaccarsi da quella cavalleresca-aristocratica e svilupparsi ulteriormente fino a diventarne l’antitesi; alla quale cosa verrà dato un particolare impulso ogni qual volta la casta sacerdotale e quella guerriera entreranno per gelosia in contrasto tra loro e non vorranno reciprocamente accordarsi intorno all’estimazione. I giudizi di valore cavalleresco-aristocratici presuppongano una poderosa costituzione fisica, una salute fiorente,ricca, spumeggiante al punto da traboccare; e con essa quel che ne condiziona la conservazione, e cioè guerra, avventura, caccia, danza, giostre, nonché, in generale, tutto quanto implica un agire forte, libero, gioioso. La maniera sacerdotalmente aristocratica di valutazione, – l’abbiamo già visto – ha presupposti diversi: quando c’è di mezzo la guerra, le cose si mettono piuttosto male per essa! I sacerdoti, come è noto, sono i nemici piùmalvagi– e perché mai? Perché sono i più impotenti. È a causa dell’impotenza che l’odio cresce in loro fino assumere proporzioni mostruose e sinistre, le più intellettuali e venefiche.
I massimi odiatori nella storia del mondo sono sempre stati i preti, e sono stati pure gli odiatori più.geniali – in confronto alla genialità della vendetta sacerdotale, ogni altra genialità può a stento essere presa in considerazione. La storia umana sarebbe una cosa veramente troppo stupida senza lo spirito che da parte degli impotenti è venuto in essa – prendiamo subito il più grosso esempio. Tutto quanto è stato fatto sulla terra contro «i nobili», «i potenti»,«i signori», « i depositari del potere» non merita una parola in confronto a ciò che contro costoro, hanno fatto gli Ebrei, quel popolo sacerdotale che ha saputo infine prendersi soddisfazione dei propri nemici e dominatori unicamente attraverso una radicale trasvalutazione dei loro valori, dunque attraverso un atto improntato alla più spirituale vendetta. Questo soltanto si conveniva appunto a un popolo sacerdotale, a un popolo dalla più compressa avidità di vendetta sacerdotale. Sono stati gli Ebrei ad avere osato, con una terrificante consequenzialità, stringendolo ben saldo con i denti dell’odio più abissale (l’odio dell’impotenza), il rovesciamento dell’ aristoratica equazione di valore (buono =nobile =potente = bello =felice =caro agli dei), ovverossia «i miserabili soltanto sono i buoni; solo i poveri, gli impotenti, gli umili, sono i buoni,i sofferenti, gli indigenti, gli infermi, i deformi sono anche gli unici devoti, gli unici uomini pii, per i quali soli esiste una beatitudine – mentre invece voi, voi nobili e potenti, siete per l’eternità i malvagi, i crudeli, i lascivi, gli insaziati, gli empi,e sarete eternamente gli sciagurati, i maledetti e i dannati !» . . . Sappiamo chi ha raccolto l’eredità di questa trasvalutazione giudaica . . . Riguardo alla mostruosa e smisuratamente funesta iniziativa che gli Ebrei hanno assunto con questa dichiarazione di guerra, la più radicale di tutte,- ricordo di quanto ebbi a scrivere ad altro proposito («Al di là del bene e del male», p. 118) – che ha inizio cioè con gli Ebrei la rivolta degli schiavi nella morale, quella rivolta che ha alle sue spalle una storia Pag 19
bimillenaria e che oggi non abbiamo i più sotto gli occhi per il semplice fatto che è stata vittoriosa … .
pag.23 par 8 – Ma non lo comprendete? Non avete occhi per questa cosa alla quale sono stati necessari due millenni per giungere alla vittoria? . . . Non c’è motivo di stupirsene: tutte le cose lunghe sono difficili a vedere, ad abbracciare con lo sguardo. Ma questo è il fatto : sul tronco di codesto albero della vendetta e dell’odio, dell’ odio giudaico – l’odio più profondo e più sublime, creatore di ideali, trasmutatore di valori, di cui mai sulla terra è esistito l’eguale – germogliò qualcosa di altrettanto incomparabile, un amore nuovo, la specie d’amore più profonda e più sublime e su quale altro tronco avrebbe mai potuto germogliare? . . . Ma non si pensi che esso si sia magari innalzato come la negazione autentica di quella sete di vendetta, come l’antitesi dell’odio ebraico! No, la verità è il contrario ! L’amore germogliò da questo come la sua corona, come la corona del trionfo, dispiegantesi in sempre maggior ampiezza nella più limpida chiarità e pienezza solare….questo è Gesù di Nazaret…” –
Nota 3 Tralasciando le trine barocche del suo disquisire: il Cristianesimo altro non è che il frutto avvelenato, il cavallo di Troia ordito dagli odiatori ebrei per distruggere il potere dei vittoriosi, delle razze superiori trionfanti…. per distruggere le radici stesse dell’uomo e della sua cultura! E’ da qui, non da una critica alla metafisica teologica, che si sviluppa l’avversione anticristiana di F.N!
Nota 4: la costruzione fantastica e delirante del pericolo ebraico e dell’ odio giudaico è un’arma potente che N. confeziona e consegna ai suoi committenti, ogni disquisizione sull’antisemitismo o meno di F.N. può nascondere al più un inspiegabile intento assolutorio da parte dei critici,, ma si dilegua davanti alle ferree e definitive parole di questo testo conclusivo del suo pensiero maturo, capolavoro di falsificazione storica e di strumentale distorsione ideologica.
La immaginifica, potente e sopratutto “poetica” metafora del vulcano di melma con cui N. bolla quello che definisce il “pregiudizio democratico” si attaglia perfettamente in realtà alle contorte invenzioni e alle indegne menzogne di questa pagina, che costituiscono la piattaforma granitica di ogni aberrazione politico-criminale-militare del secolo successivo.
Nota 5: l’immagine della potenza fisica e della salute: “poderosa costituzione fisica, salute fiorente, ricca, spumeggiante al punto da traboccare….. guerra, avventura, caccia, danza, giostre, nonché, in generale, tutto quanto implica un agire forte, libero, gioioso” costituiscono prezioso materiale di studio per indagini di natura psico-patologica, di cui peraltro abbonda la letteratura.
Si tratta esattamente e puntigliosamente dell’elenco di tutto ciò che la natura aveva negato all’uomo-Nietzsche, vittima di gravi patologie sempre mal diagnosticate, sia di natura squisitamente psichiatrica che di natura organica o più verosimilmente di natura inscindibilmente connessa.
Una vera e propria sorda invidia degli esseri umani normalmente dotati traspare in ogni pagina dei suoi scritti, ed in questa emerge nel modo più esplicito: laddove un intellettuale responsabile, consapevole della sua condizione, avrebbe fatto una analisi del suo essere in rapporto alle condizioni oggettive, incluse quelle personali, (riflettiamo sul suo quasi coevo Leopardi!), N. si scatena con furore barbarico contro coloro i quali si trovano in condizioni analoghe alle sue!
Riportiamo solo alcune diagnosi di psichiatri che lo ebbero in cura o che hanno esaminato il caso sulla base di elementi postumi :
“arteriopatia cerebrale autosomica dominante con infarti sottocorticali e leucoencefalopatia”, (Cadasil), malattia neurologica e vascolare incurabile che causa ripetuti micro-infarti cerebrali, provocando dapprima emicrania (di cui N. soffriva dagli anni ’60), e in seguito demenza, confusione mentale e apatia, sintomi riscontrati in Nietzsche, ma anche in suo padre, data l’ereditarietà della patologia. Tumore cerebrale a lenta progressione, ipotizzato da Leonard Sax (meningioma); demenza frontotemporale. In particolare le varianti della malattia di Pick, demenza frontotemporale con amiotrofia ereditaria precoce P.G. Milanesei, Il caso Nietzsche, Gruppo diNeuroteoretica, Pavia & Brain Connectivity Center, IRCCS Fondazione Istituto Neurologico Nazionale C. Mondino, Pavia, secondo M. Orth e M.R. Trimble;encefalomiopatia mitocondriale Pag 20
Koszka C., Friedrich Nietzsche, (1844,1900): a classical case of mitochondrial enchephalomyopathy whith lactic acidosis and stroke-like episodes (MELAS) Syndrome?, dalla voce F.N. In Wikipedia).
Perché abbiamo rimarcato gli aspetti patologici della personalità di F.N.? Perché, come vedremo subito dopo, la sua personalità appare quanto meno drasticamente sdoppiata, come dimostrano tutta una serie di affermazioni di esplicito apprezzamento degli ebrei e della loro cultura non solo in alcune opere antecedenti, ma persino negli stessi mesi della stesura di GdM.
Lo stesso risulta dalla lunga, dura, polemica con gli antisemiti tedeschi ampiamente presenti nel dibattito, allora solo culturale, della sua epoca.
Questo aspetto violentemente autocontraddittorio della sua personalità è riuscito ad esercitare un fascino indiscusso su centinaia di studiosi, che hanno scambiato quello che è un pensiero profondamente patologico, che esula da ogni valutazione di natura filosofica, per un pensiero dotato di profonda, insondabile e affascinante complessità.
“Il cielo abbia pietà dell’ intelligenza europea, posto che si voglia allontanarne l’intelligenza ebraica!…Mi è stato raccontato di un giovane (…) che ha perduto la quiete notturna per l’eccitazione e l’entusiasmo suscitati in lui dal mio ultimo libro (…) risultò trattarsi ancora una volta di un ebreo (un tedesco non si fa disturbare così facilmente nel sonno)”(lettera alla madre, 19 sett. 1886). (cioè, se un lettore aderisce al pensiero dell’autore, per ebreo che sia, meriterà pur sempre ogni elogio!)
E nel maggio1887, proprio durante la stesura di GdM!, scriverà alla sorella:
“Del resto è mio sincero convincimento che un tedesco, il quale per il solo fatto di essere tedesco ritenga di essere qualcosa di più di un ebreo, sia un personaggio da commedia, per non dire da manicomio “. Dopo di che compone questi paragrafi, ed il par. 16 , che consiglio di esaminare subito.
Andiamo avanti. Il rendissement. Un altro pilastro della costruzione nietzscheana.
Pag 24 par 9. “il popolo ha vinto – ovvero gli schiavi o “la plebe” o “il gregge” – chiamateli come vi piace – e se questo è avvenuto per mezzo degli Ebrei, ebbene mai un popolo ha avuto una missione più grande nella storia del mondo. I signori sono liquidati; la morale dell’uomo comune ha vinto. Si può considerare, al tempo stesso, questa vittoria come un avvelenamento del sangue (ha mescolato tra loro le razze) – niente da eccepire; indubbiamente però questa intossicazione ha avuto buon esito. La “redenzione” del genere umano (dai “signori’) è sulla migliore delle strade; tutto si giudaizza o si cristianizza o si plebeizza a vista d’occhio (che importano le parole !). Il progredire di questa intossicazione, attraverso l’intero corpo dell’umanità, sembra irresistibile……………….”
pag 25 par 10. “Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori.; il ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria. //(più avanti si ricorderà invece della rivoluzione francese e delle altre rivolte degli schiavi!)//
Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un «di fuori», a un « altro», (…) ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per potere in generale agire – la sua azione è fondamentalmente una reazione. (…) l’uomo del ressentiment non è né schietto, né ingenuo, né onesto e franco con se stesso. La sua anima svillaneggia………..Una razza di siffatti uomini del ressentiment finirà necessariamente per essere più accorta di qualsiasi razza aristocratica, (…) tra loro appunto di gran lunga essa non è così essenziale come la perfetta sicurezza funzionale degli inconsci istinti regolatori, o addirittura una certa mancanza di accortezza, quale potrebbe essere il coraggioso gettarsi allo sbaraglio, sia contro il pericolo, sia contro il nemico, o quella stravagante repentinità di collera, d’amore, di venerazione, di gratitudine e di vendetta in cui in ogni tempo si sono riconosciute le anime nobili. (…) (par 11) //che sono// per quanto riguarda l’esterno, là
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dove comincia il mondo estraneo, gli stranieri, non molto migliori di scatenate belve feroci. Assaporano allora la libertà, da tutte le costrizioni sociali, si rifanno, nello stato selvaggio, della tensione dovuta ad una lunga segregazione e allo star rinserrati nella pace della comunità, regrediscono nell’innocenza della coscienza propria di un’ animale da preda come giubilanti mostri che se ne escono forse da una orribile serie di delitti, incendi, infamie, torture con una tracotanza ed un intimo equilibrio, come se si fosse trattato semplicemente d’una zuffa studentesca, convinti che i poeti avranno ormai per lungo tempo qualcosa di nuovo da cantare e celebrare. Al fondo di tutte queste razze aristocratiche occorre saper discernere la belva feroce, la magnifica divagante bionda bestia, avida di preda e di vittoria; di tanto in tanto è necessario uno sfogo per questo fondo nascosto, la belva deve di nuovo venir fuori, deve di nuovo rinselvarsi – aristocrazia romana, araba, germanica, giapponese, eroi omerici, Vichinghi scandinavi – tutti sono eguali in questo bisogno.
Sono le razze nobili ad aver lasciato su tutte le loro orme la nozione di «barbaro», ovunque siano esse passate; il loro superiore livello di cultura tradisce ancora una consapevolezza di questo fatto e persino un orgoglio a questo riguardo. (…) Questa «audacia» di nobili razze, folle, assurda, improvvisa, il modo in cui essa si estrinseca, l’imprevedibilità, la stessa inverosimiglianza delle loro imprese (…) la loro indifferenza e il loro disprezzo per la sicurezza, il corpo, la vita, gli agi, la loro terribile serenità e la profondità del godimento in ogni distruzione, in ogni voluttà di vittoria e di crudeltà – tutto ciò, per coloro che ne soffrono, si compendia nell’immagine dei «barbari», del «nemico malvagio», per esempio dei «Goti», dei «Vandali».
La profonda, gelida diffidenza che anche oggi nuovamente suscita il tedesco, non appena instaura la sua potenza – è ancor sempre una ripercussione di quell’inestinguibile terrore con cui l’Europa nel corso dei secoli ha riguardato la furia della bionda bestia germanica (…) si dovrebbe considerare senza il minimo dubbio che tutti questi istinti di reazione e di ressentiment, per mezzo dei quali le razze aristocratiche sono state infine umiliate e sopraffatte unitamente ai loro ideali, come i peculiari strumenti della civiltà; con la quale cosa, invero, non sarebbe ancora detto che i depositari di quelli rappresentassero al contempo essi stessi la civiltà. Il contrario piuttosto sarebbe non soltanto verosimile – ma che dico ! Esso è oggi evidente! Questi depositari degli istinti compressi e bramosi di compensazione, i discendenti di ogni schiavitù europea e non europea e di ogni popolazione preariana in particolare – costoro rappresentano la retrocessione dell’umanità.
Questi «strumenti della civiltà» sono un obbrobrio per l’uomo e piuttosto un sospetto, un argomento contrario alla «civiltà» in generale ! Si potrà anche avere tutto il diritto di non sbarazzarsi della paura per la bionda bestia che è nel fondo di tutte le razze aristocratiche e di stare in guardia: ma chi non preferirebbe cento volte temere, qualora al tempo stesso potesse ammirare, invece che non temere, senza intanto potersi più liberare dalla vista disgustosa dei malriusciti, dei meschini, degli intristiti e intossicati? E non è forse questa la nostra fatalità? Che cosa determina, oggi, la nostri ripugnanza per l’«uomo»? poiché è dell’uomo che noi soffriamo, non v’è dubbio (…) – che ha per l’appunto un certo diritto di ritenersi tale, uomo superiore, in quanto si sente distante dalla sovrabbondanza di esseri malriusciti, infermicci, estenuati, disfatti, da cui oggi l’Europa comincia a essere ammorbata, (…)
A questo punto non riesco a reprimere un sospiro e un’ultima speranza. Che cos’è appunto, per me, l’ assolutamente intollerabile? L’unica cosa di cui non vengo a capo, ciò che mi fa soffocare e venir meno? Aria cattiva ! Aria cattiva! Che qualcosa di malriuscito si stia avvicinando a me, che io sia costretto a fiutare le interiora di un’anima malriuscita … Che cosa del resto non si sopporta di tribolazioni, privazioni, intemperie, infermità, fatiche, solitudini? In fondo, si riesce a venire a capo di questo e altro, nati come siamo per un’esistenza sotterranea e di lotta; si torna ancor sempre alla luce, si torna ancor sempre a rivivere il nostro aureo momento di vittoria! (…) Giacché è cosi: l’immeschinirsi e il livellarsi dell’uomo europeo nasconde il nostro massimo pericolo, data la stanchezza che ci infonde questo spettacolo . . . Oggi nulla vediamo che voglia divenire più grande, abbiamo il presentimento che tutto continui a sprofondare, a sprofondare, divenendo più sottile, più buono, più prudente, più agevole, più mediocre, più ‘indifferente, più cinese, più cristiano –
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l’uomo, non v’è alcun dubbio – si fa sempre «migliore» (…) Appunto qui sta la fatalità dell’Europa — col timore per l’uomo abbiamo perduto anche l’amore verso di lui, la venerazione dinanzi a lui, la speranza in lui, anzi la volontà tesa a lui. La vista dell’uomo rende ormai stanchi – che cos’altro è oggi nichilismo, se non è questo? . . . Noi siamo stanchi dell’uomo-.
Pag 33 par13 Ma torniamo indietro: il problema dell’altra origine del «buono», del buono come lo ha concepito l’uomo del ressentiment, esige la sua risoluzione.. – Che gli agnelli nutrano avversione per i grandi uccelli rapaci, è un fatto che non sorprende: solo che non v’è in ciò alcun motivo per rimproverare ai grandi uccelli rapaci di impadronirsi degli agnellini. E se gli agnelli si vanno dicendo tra loro: «Questi rapaci sono malvagi; e chi è il meno possibile uccello rapace, anzi il suo opposto, un agnello – non dovrebbe forse essere buono?» su questa maniera di erigere un ideale non ci sarebbe nulla da ridire, salvo il fatto che gli uccelli rapaci guarderanno a tutto ciò con un certo scherno e si diranno forse: «con loro non ce l’abbiamo affatto noi, con questi, addirittura li amiamo: nulla è più saporito di un tenero agnello». – Pretendere dalla forza che non si estrinsechi come forza, che non sia un voler sopraffare, un voler abbattere, un voler signoreggiare, … è precisamente così assurdo come pretendere dalla debolezza che essa si estrinsechi come forza (…)
Pag 36 par 14 (…) «ora costoro mi danno ad intendere che non soltanto sono migliori dei signori della terra, di cui devono leccare gli sputi (non per paura, assolutamente non per paura! Ma perché Dio ha comandato di onorare ogni autorità), //e qua il campione dell’ ateismo si rifà a Paolo dell’ “Epistola ai Romani”// ma che “stanno meglio” o almeno che “un giorno staranno meglio”
pag 40 par 16 Ci avviciniamo alla conclusione. I due valori antitetici «buono e cattivo», «buono e malvagio» hanno sostenuto sulla terra una terribile lotta durata millenni; Il simbolo di questa lotta, espresso in caratteri che sono restati sino a oggi leggibili al di sopra di tutta la storia degli uomini, è «Roma contro Giudea, Giudea, contro Roma»: – non c’è stato fino a oggi alcun avvenimento più grande di questa lotta, di questa posizione del problema; di questa contraddizione pervasa d’inimicizia mortale. Roma sentì nell’ebreo qualcosa come la contronatura stessa, per così dire il suo monstrum antipodico; in Roma si considerava l’ebreo «un provato colpevole di odio contro l’intero genere umano» (cfr Tacito…): a buon diritto, in quanto si ha un diritto ricollegare la salvezza e l’avvenire del genere umano all’assoluta supremazia dei valori aristocratici, dei valori romani. Che cosa hanno sentito invece contro Roma gli Ebrei? Lo si indovina da mille segni; ma è sufficiente richiamare ancora una volta alla memoria l’Apocalisse giovannea, la più caotica di tutte le invettive scritte, che la vendetta abbia sulla coscienza. (Non si sottovaluti del resto la estrema consequenzialità dell’istinto cristiano, allorché sopra questo libro dell’odio scrisse il nome del discepolo dell’amore….). I Romani erano invero i forti e i nobili, come non sono mai esistiti sulla terra di più forti e più nobili, e nemmeno mai sono stati sognati: ogni loro reliquia, ogni iscrizione manda in estasi, ammesso che si riesca a indovinareche cosa scrive in quelle. Gli Ebrei viceversa erano quel popolo sacerdotale, del ressentiment par excellence, in cui era insita una génialità popolare-morale impareggiabile: si confrontino un po’ i popoli analogamente dotati, come i Cinesi o i Tedeschi, con gli Ebrei, per discernere cos’è di primo e che cosa di quint’ ordine. Quale di essi ha temporaneamente vinto, Roma o Giudea? Ma non c’è proprio il minimo dubbio: si consideri invero dinanzi a chi ci si inchini, oggi, nella stessa Roma (…) dinanzi a tre ebrei, come è noto, e a una ebrea (dinanzi a Gesù di Nazaret, al pescatore Pietro, al tessitor di tappeti Paolo e alla madre del suddetto Gesù, chiamata Maria). È un fatto assai degno di nota : senza dubbio Roma ha dovuto soccombere. È vero che nel Rinascimento si ebbe un risveglio splendidamente inquietante dell’ideale classico, della maniera aristocratica di valutare tutte le cose: come chi è ridestato dalla catalessi, Roma stessa si muoveva sotto il peso della nuova Roma giudaizzata edificata sopra l’antica, la quale aveva tutto l’aspetto di una sinagoga ecumenica e veniva chiamata «Chiesa»; ma Pag 23
subito tornò a trionfare Giudea, grazie a quel movimento del ressentiment fondamentalmente plebeo (tedesco e inglese), cui si dà il nome di Riforma, con l’aggiunta di quel che doveva seguire ad essa; la restaurazione della Chiesa – la restaurazione altresì dell’antica quiete sepolcrale della Roma classica. In un senso addirittura più decisivo e più profondo di allora, Giudea pervenne, con la rivoluzione francese, ancora una volta alla vittoria sull’ideale classico: l‘ultima aristocrazia politica esistente in Europa, quella del XVII e XVIII secolo francese, crollò sotto gli istinti popolari del ressentiment – non si era mai sentito sulla terra un giubilo più grande; un più rumoroso entusiasmo! In mezzo a tutto questo accadde in realtà la cosa più enorme, più inaspettata: lo stesso antico ideale comparve in carne e ossa e con uno straordinario splendore dinanzi agli occhi e alla coscienza dell’umanità- e ancora una volta, di fronte all’antica, mendace parola d’ordine del ressentiment, espressa nel primato del maggior numero, di fronte alla, volontà di scadimento, di abiezione, di livellamento, di abbassamento e di tramonto dell’uomo, risuonò più forte, più netta, più incisiva che mai l’opposta tremenda e fascinosa parola d’ordine, quella del primato dei pochi! Come un’ultima indicazione dell’altra via apparve Napoleone, quest’uomo singolarissimo, questo frutto estremamente tardivo come nessun altro mai, e con lui il problema incarnato dell’ ideale aristocratico in sé– si consideri bene quale imponente problema esso sia -Napoleone, questa sintesi di disumano e di superumano…
pag 42 par.17 – È dunque passato tutto ciò? Quel contrasto di ideali, grandissimo tra tutti, sarebbe così, messo ad acta per sempre? Oppure soltanto aggiornato, aggiornato a un’epoca lontana? . . . Potrà mai darsi che in qualche tempo avvenire torni a divampare l’antico incendio ancor più terribile, dopo una assai più lunga preparazione? E più ancora: non sarebbe proprioquesto da desiderare con tutte le forze? e anche da volere? anche da promuovere? . . Chi a questo punto comincia, al pari, dei miei lettori, a meditare, ad approfondire i suoi pensieri, difficilmente potrà venirne presto a capo – una ragione sufficiente, per me, per venirne a capo lo stesso, essendo divenuto da un pezzo abbastanza chiaro quel che io voglio, quel che io voglio precisamente con quella pericolosa parola d’ordine che è espressamente scritta nel mio ultimo libro: «Al di là di bene e male» . . . Se non altro questo non significa: «Al di là di buono e cattivo» . . .
Nota. Colgo l’occasione offertami da questo saggio per esprimere pubblicamente e formalmente un voto che sino a oggi è stato da me esternato soltanto in occasionali conversazioni con dotte persone: che cioè una qualche facoltà di filosofia si rendesse benemerita, attraverso una serie di concorsi accademici, per l’avanzamento degli studi di storia della morale – forse questo libro servirà a dare un vigoroso impulso proprio in tale direzione. In ordine a una possibilità di questo genere si propone la questione seguente: essa merita tanto l’attenzione dei filologi e degli storici, quanto quella dei veri e propri cultori di filosofia per professione:
«Quali indicazioni ci fornisce la scienza linguistica, e segnatamente l’indagine etimologica, per la storia dell’evoluzione dei concetti morali?»
D’altro canto ‘è certo altrettanto necessario acquisire la partecipazione dei fisiologi e dei medici a questi problemi (sul valore delle valutazioni avutesi sino a oggi) – (…) Qualcosa, per esempio, che rivelasse visibilmente un valore in ordine alla maggior possibilità di durata di una razza (o al potenziamento delle sue capacità d’adattamento a un determinato clima o alla conservazione del più gran numero) non avrebbe assolutamente stesso valore quando si trattasse eventualmente di plasmare un tipo più forte. (…) Tutte le scienze devono ormai elaborare in via preparatoria i compito futuro dei filosofi: intendo questo compito nel senso che il filosofo deve risolvereil problema del valore, deve determinare la gerarchia dei valori.
Nota 6 Ritengo che pochi uomini nel corso della storia abbiano manifestato un così totale servilismo nei confronti di una classe sociale, quella dei forti guerrieri e dei loro discendenti (alla quale aspirerebbe ad appartenere come un sogno proibito, lui uomo costituzionalmente infermo e malaticcio). Alla quale offre persino una preventiva e definitiva assoluzione da ogni possibile reato, storico ma anche penale, di ogni genere, considerato che si tratterà sempre di legittima difesa, che Pag 24
la nobile bestia bionda viene costantemente tenuta incatenata da sordidi uomini rancorosi manovrati da sordidi ebrei.
Ci chiediamo poi: ma Napoleone, questa sintesi di disumano e di superumano, da quale bionda nobile e superiore aristocrazia discendeva? Vorremmo suggerire: essendo di origine italica, da quella nobilissima stirpe di Romani che sconfissero i miserabili Ebrei. Ed in ogni caso l’esempio di Napoleone ha per i committenti di N. un valore fondamentale: si da la possibilità al futuro super/oltreuomo di provenire da una razza anche non blasonata, anche non bionda-occhi azzurri, per non mettere ipoteche sul futuro.
Si veda quelo che scriverà lanno seg. in “L’ Anticristo”: “singoli casi di riuscita nelle più diverse civiltà”.
Sull’appello agli uomini di scienza come depositari del vero in filosofia: si leggano le successive pag 150 e segg.!
Nota 7 Ancora dubbi sull’antisemitismo di F.N.? Sembra che emerga la polemica con i suoi contemporanei antisemiti, che considerava esseri superficiali a cui sfuggiva la profondità abissale della malvagità ebraica, che solo lui con questa analisi storica è in grado di mettere in rilievo.
Nota 8 Ancora dubbi sulla forma di stato gradita ed auspicata da F.N., per la quale “non sarebbe proprio questo da desiderare con tutte le forze? e anche da volere? anche da promuovere?”
Sulle sue critiche non “allo Stato”, ma ad ogni Stato che non sia monocratico, al più oligarchico, saldamente in mano a bionde, nobili e malvagie bestie superiori, fondato sulla dedizione ed alla obbedienza più assoluta dei cittadini, previa abolizione di ogni corruttrice ricerca di verità, vedremo meglio al par 24 della terza dissertazione.
SECONDA DISSERTAZIONE
«COLPA», «CATTIVA COSCIENZA» E SIMILI
pag 49 par 3 ……Quando l’uomo ritenne necessario formarsi una memoria, ciò non avvenne mai senza sangue, martiri, sacrifici; i sacrifici ed i pegni più spaventosi (in cui si ricomprendono i sacrifici dei primogeniti), le più ripugnanti mutilazioni (per esempio le castrazioni), le più crudeli forme rituali di tutti i culti religiosi (e tutte le religioni sono, nel loro fondo ultimo, sistemi di crudeltà) – tutto ciò ha la sua origine in quell’istinto che colse nel dolore il coadiuvante più potente per la mnemonica. (…) noi Tedeschi non ci consideriamo certo un popolo particolarmente crudele e duro di cuore,….ma basta fare attenzione ai nostri antichi ordinamenti penali per accorgersi quanta fatica ci vuole sulla terra per allevare un «popolo di pensatori» (voglio dire il popolo d’ Europa in mezzo al quale si può trovare ancora oggi ilmaximum di fiducia, di serietà, di cattivo gusto e di obbiettività e che con queste qualità ha il diritto ad allevare ogni specie di Mandarini in Europa). Questi Tedeschi si sono fabbricati una memoria con mezzi terribili, allo scopo di padroneggiare i loro fondamentali istinti plebei e la loro brutale rozzezza….la lapidazione… la condanna della ruota (la più caratteristica invenzione e specialità del genio tedesco nell’ambito delle pene!), all’ impalare, al far lacerare o schiacciare dai cavalli («squartamento»), alla bollitura in olio e vino, al molto apprezzato scorticamento («scuoiamento»), alla resecazione della carne dal petto (…) e veramente grazie a questa specie di memoria si giunse infine alla «ragione!» (…) Donde ha derivato il suo potere questa idea antichissima, oggi forse non più estirpabile, l’idea di una equivalenza di danno e di dolore? L’ho già rivelato: nel rapporto contrattuale tra creditore e debitore (…) antico quanto l’esistenza di «soggetti di diritto», e rimanda ancora una volta, dal canto suo, alle forme fondamentali della compera, della vendita, dello scambio, del commercio. Senza dubbio, come è dato preliminarmente aspettarci da quanto si è in precedenza osservato, la raffigurazione di questi rapporti contrattuali risveglia contro la più antica umanità che li ha creati o permessi ogni genere di sospetti e d’ opposizioni. Qui precisamente Pag 25
vengono fatte promesse; qui precisamente si tratta di fabbricare una memoria a colui che promette; qui precisamente, è lecito sospettarlo, si troverà una base per scoprire cose dure, crudeli, penose. Per infondere fiducia nella sua promessa di restituzione, per dare una garanzia della serietà e santità della sua promessa, per imporre, in se stesso, alla propria coscienza la restituzione come dovere e obbligazione, il debitore dà in pegno, in forza del contratto, al creditore, per il caso che non paghi, qualcosa d’altro che ancora «possiede», su cui ha ancora potere, per esempio il proprio corpo o la propria donna o la propria libertà o anche la propria vita (oppure, stando a. determinati presupposti religiosi, persino la sua beatitudine, la salvezza della sua anima, e infine, forse, anche la pace nel sepolcro: così in Egitto, dove il cadavere del debitore non trovava pace dal creditore neppure nella tomba – e invero, proprio presso gli Egizi, questa pace rivestiva altresì una certa importanza). Ma specialmente sul corpo del debitore il creditore poteva infliggere ogni sorta ignominia e di tortura, tagliarne giù tanto quanto pareva commisurato alla entità del debito (…) /con/ precise valutazioni, in parte orribilmente estese al più piccolo dettaglio, valutazioni, legittimamente stabilite, delle singole membra e parti del corpo. Ritengo già un progresso, una prova di una concezione del diritto più libera, più lungimirante nel computo, più romana, il decreto contenuto nella legislazione romana delle Dodici Tavole: che dovesse considerarsi indifferente quanto di più o di meno i creditori tagliassero in un simile caso «si plus minusve secuerunt, ne fraude esto». Rendiamoci chiara la logica di tutta questa forma di compensazione: è abbastanza bizzarra. L’equivalenza è data dal fatto che al posto di un vantaggio in diretto equilibrio con il danno (al posto dunque di una compensazione in danaro, terra, possessi di qualsivoglia specie) viene concessa al creditore a titolo di rimborso e di compensazione una sorta di soddisfazione intima – la soddisfazione di poter scatenare senza alcuno scrupolo la propria potenza su un essere impotente, la voluttà «de faire le mal pour le plaisir de le faire », il piacere di far violenza: piacere che come tale risulta apprezzato in misura tanto più alta quanto più bassa e umile è la condizione de1 creditore nell’ordinamento della società, e che può facilmente apparirgli come un boccone prelibato, anzi come pregustazione di un rango più alto. Mediante la «pena» del debitore, il creditore partecipa di un diritto signorile: raggiunge altresì finalmente il sentimento esaltante di poter disprezzare e maltrattare un individuo come un «suo inferiore» – o quanto meno, nel caso che la vera e propria potestà punitiva, l’applicazione di una pena, sia già trapassata alla «autorità», di vederlo disprezzato e maltrattato. La compensazione consiste quindi in un mandato e in un diritto alla crudeltà.
Pag 53 par 6 In questa sfera, nel diritto dunque delle obbligazioni, il mondo dei concetti morali «colpa», «coscienza», «dovere», «sacralità del dovere» ha il suo focolare d’origine – i suoi inizi, come gli inizi di ogni grandezza terrena, sono stati a fondo e lungamente irrorati di sangue. E non si potrebbe aggiungere che in sostanza quel mondo non ha mai più interamente perduto un certo lezzo di sangue e di tortura? (perfino nel vecchio Kant-: l’imperativo categorico puzza di crudeltà) Egualmente qui e stata per la prima volta ribadita quella sinistra catena di idee, divenuta forse indissolubile, «colpa e sofferenza». Diciamolo ancora una volta: in che senso può una sofferenza essere una compensazione di «debiti»? In quanto far soffrire arrecava soddisfazione in sommo grado…..uno straordinario contro-godimento: il far soffrire – una vera e propria festa, ……. fino a quale grado la crudeltà costituisce la grande gioia festiva della più antica umanità, e sia anzi commista come ingrediente quasi a ognuna delle sue gioie; come ingenuo, d’altro canto, come innocente appare il suo bisogno di crudeltà, e in quale fondamentale misura viene stabilita da essa come proprietà normale dell’uomo, appunto la «malvagità disinteressata» (o, per dirla con Spinoza, la sympathia malevolens) -: un qualcosa, quindi, al quale la coscienza dice si di tutto cuore! Per uno sguardo più profondo ci sarebbe forse ancor oggi abbastanza da cogliere di questa antichissima e profondissima gioia festiva dell’uomo; in «Al di là del bene e del male», pp. 117 sgg. (già precedentemente in «Aurora», pp. 17, 68, 102). ho con cautela di tratto richiamato l’attenzione (…)
(si ricordi per esempio don Chisciotte alla corte della duchessa: leggiamo oggi l’intero Don
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Chisciotte con un gusto amaro in bocca, quasi torturandoci, e saremmo per questo quanto mai estranei, oscuri al suo autore e ai suoi contemporanei – costoro lo leggevano, con la più tranquilla coscienza di questo mondo, come il più giocoso dei libri e ne ridevano tanto da morirne). Veder soffrire fa bene, cagionare la sofferenza ancor meglio – è questa una dura sentenza, eppure un’antica, possente, umana, troppo umana sentenza fondamentale che del resto forse anche le scimmie sottoscriverebbero : si racconta, infatti, che nell’escogitare bizzarre crudeltà esse già preannunziano largamente l’uomo e ne sono, per cosi dire, un «preludio»: Senza crudeltà non v’è festa: cosi insegna la più antica la più antica storia dell’uomo – e anche nella pena c’è tanta aria di festa!
Pag 55, par7 Con questi pensieri, sia detto di sfuggita, non intendo in alcun modo aiutare i nostri pessimisti a tirare nuova acqua ai loro stridenti e cigolanti mulini del tedio vitale al contrario dev’essere espressamente attestato che, allorquando l’umanità non si vergognava della sua crudeltà, la vita era sulla terra più serena di oggi, ………
Nota 9 Tentiamo di prescindere dal disgusto che dissertazioni simili non possono non provocare in un essere sano. Qual’ è il filum logico seguito da N.? Preso atto che uccelli rapaci, scimmie, romani, e tedeschi dei secoli scorsi, praticavano la più totale ed assoluta crudeltà, allora se ne deduce che «veder soffrire fa bene, cagionare la sofferenza ancor meglio – è questa una dura sentenza, eppure un’antica, possente, umana, troppo umana sentenza fondamentale» e«dev’essere espressamente attestato che, allorquando l’umanità non si vergognava della sua crudeltà, la vita era sulla terra più serena di oggi».
E ancora: Che ci fa Spinoza in un testo come questo? Come fa N. a tentare di strumentalizzare un filosofo che era il suo opposto sotto ogni profilo? Ci può aiutare G.Turco Liveri: “Filosofo avventato per la mania di trovare illustri antesignani al suo pensiero, Nietzsche si innamora di colpo e ardentemente di Spinoza, in base ad una conoscenza di seconda mano (Kuno Fischer). Ma quando scopre poi direttamente l’abisso che separa i propri presupposti politici, morali e metafisici – fondati sulla difesa di una struttura rigidamente gerarchica della società – da quelli di Spinoza – basati su un ordinamento statuale democratico – allora quel suo “amore inappagato” si tramuterà in biasimi ed accuse via via sempre più aspre, fino alla feroce denigrazione del “sistema” spinoziano a “fenomenologia della tisi”, a frutto velenoso, perché vendicativo, della “morbosa” manifestazione “fisiologica” della mente e del corpo del suo autore, il quale, quindi, proprio perché “malato”, risulta a priori condannato”.
Ma che tipologia di lettori aveva (ed ha) F.N.? Perché, se è vero che sono state conclamate da autorevolissimi psichiatri gravi forme di dissociazione, forse legate a patologie degenerative, lettori disposti ad accettare questa roba non possono essere con ogni evidenza molto diversi.
Non si può non restare basiti osservando con quale ebbrezza di sangue descriva i minimi particolari dei trattamenti che i suoi antenati riservavano ai “rei”: “la lapidazione… la condanna della ruota (la più caratteristica invenzione e specialità del genio tedesco nell’ambito delle pene!), all’ impalare, al far lacerare o schiacciare dai cavalli («squartamento»), alla bollitura in olio e vino,al molto apprezzato scorticamento («scuoiamento»), alla resecazione della carne dal petto.”
Il suo coevo “Jack lo squartatore” avrebbe apprezzato con suprema gratitudine.
Nota 10 Sulla supposta “analisi storica” che pretende di sottostare al delirio nietzscheano:
A cosa si va a riferire, quale esempio trova N., frugando nei rifiuti della storia: non al complesso corpus del diritto romano come viene studiato ed analizzato dai giuristi di tutto il mondo, primo esempio di regolazione scritta dei rapporti sociali, ma al suo antenato, le famigerate “dodici tavole”, risalenti a 4,5 secoli a.c., ed in particolare alla III°, la famigerata “legge del taglione” sulla cui versione autentica oltre tutto ancora si discute data l’ambiguità nella quale viene formulata in un latino arcaico e ancora poco chiaro!
Tentiamo di mettere in chiaro il contorto filo logico del ragionamento: a sostegno della scelta di campo a favore della sadica crudeltà dei vincenti di turno, e del diritto di costoro di esercitarla, N. Pag 27
invoca degli esempi storici tratti dai periodi più bui dell’iter della società umana, ed invece di additarli ad esempi negativi da superare con tutte le forze, ne fa, senza il benché minimo tentativo di giustificare tale scelta, una generalizzazione positiva, l’esempio perenne per una società superiore, per lo Stato superiore.
E ancora: Qua N. ammette che il rapporto primordiale e centrale nel contesto sociale umano è quello mercantile, come meglio chiarirà e ribadirà al par 8: cosicché assume il dovuto rilievo il suo dichiarato appoggio, ormai ufficiale, ai vincenti nel contesto mercantile, nel contesto economico, ai quali attribuisce ogni diritto, quasi il dovere, di infliggere con sadico piacere ogni sofferenza ai perdenti, ai deboli, ai…. Ed estende, ancora senza giustificazione alcuna, ai giorni d’oggi, quanto tragicamente riscontrato nelle epoche più arcaiche.
Ma inspiriamo, e continuiamo:
pag 55 par 7 (…) L’offuscarsi del cielo al d sopra dell’uomo è andato aumentando in rapporto al fatto che è cresciuta lavergogna dell’ uomo dinanzi all’uomo (…)-Alludo all’ infrollimento ed alla demoralizzazione morbosi, a cagione di quali la bestia «uomo» finisce per imparare a vergognarsi di tutti i suoi istinti. non soltanto la gioia e l’innocenza dell’animale hanno destato la sua ripugnanza, ma la vita stessa gli è divenuta insipida – cosicché talvolta si pianta davanti a se stesso tappandosi il naso e con papa Innocenzo III fa l’elenco, con aria di condanna, di tutte le sue avversioni («sozzo concepimento, nauseabonda nutrizione nel seno materno, tristizia della materia da cui l’uomo si è sviluppato, ributtante fetore, secrezione di sputo, urina ed escrementi»). Ora che la sofferenza deve sempre mettersi in mostra come il primo degli argomenti contro l’esistenza, come il suo peggior punto interrogativo, si farà bene a ricordarsi dei tempi in cui opposto era il nostro giudizio, poiché non si voleva fare a meno di suscitar dolore e si vedeva in ciò una magia di prim’ordine, una vera e propria esca di seduzione alla vita. Forse allora – sia detto a consolazioni dei delicati – il dolore non faceva ancora cosi male come oggi; per lo meno potrà giungere a questa conclusione un medico, il quale abbia curato negri (prendendo questi come rappresentanti dell’uomo preistorico) in gravi casi di infiammazione interna, che portano alle soglie della disperazione anche l’europeo della miglior complessione organica questo non succede nei negri. (La curva della tolleranza umana al dolore sembra scendere in realtà straordinariamente e quasi all’improvviso, non appena si abbia dietro di sé i primi diecimila o dieci milioni di individui di una civiltà superiore; e quanto a me non ho alcun dubbio che, a paragone di una notte di dolore di una sola isterica donnetta letterata, le sofferenze di tutti gli animali insieme, i quali sono stati fino a oggi interrogati col coltello ai fini di scientifiche risposte, non vanno semplicemente prese in considerazione). (…) «È giustificato ogni male il cui spettacolo è edificante per un dio»: cosi suonava la primordiale logica del sentimento – e in realtà fu soltanto quella primordiale? Gli dèi pensati come amici di spettacoli crudeli – oh, fino a che punto anche questa antichissima concezione emerge ancora all’interno della nostra umanizzazione europea! ci si può eventualmente consigliare, al riguardo, con Calvino e Lutero. Comunque è certo che ancora i Greci non sapevano offrire ai loro dèi nessun altro più gradevole companatico alla loro beatitudine, se non le gioie della crudeltà. Con quali occhi credete voi che Omero faccia guardare dall’alto sui destini degli uomini i suoi dèi? Quale ultimo senso ebbero in fondo le guerre troiane e simili tragiche atrocità? Non si può avere al riguardo il minimo dubbio: erano concepite come spettacoli di festa per gli dei: e in quanto il poeta è in questo, più degli altri uomini, di natura « divina», erano altresì spettacoli di festa per i poeti . . . In maniera non diversa, più tardi, i filosofi greci della morale pensavano guardassero gli occhi degli dèi ancora ai certami morali, all’eroismo e all’ autotormentarsi dei virtuosi (…) L’intera umanità, antica è piena di delicati riguardi per lo «spettatore», essendo un mondo essenzialmente pubblico, essenzialmente manifesto, che non sapeva immaginarsi la felicità senza spettatori e feste. – E, come già ho detto, anche nella grande punizione v’è tant’aria di festa! . . .
Nota 11 Credo che raramente qualcuno sia stato capace di concentrare in così poche righe tanto enormi balordaggini, a cominciare dal morboso compiacimento col quale si riportano le delizie di Pag 28
Innocenzo III, alla curva della tolleranza umana al dolore, ai negri come rappresentanti dell’uomo preistorico, agli dèi che godevano sadicamente delle più tragiche atrocità, ai poeti anch’essi, in quanto di natura divina, sadici, felici, spettatori di ogni obbrobrio.
E comunque, si badi bene, occorre tornare ai bei tempi in cui non si voleva fare a meno di suscitar dolore, una vera e propria esca di seduzione alla vita. Continuiamo…
pag 58 par 8 Il sentimento della colpa, della nostra personale obbligazione”, per riprendere il corso della nostra indagine, ha avuto, come abbiamo visto, la sua origine nel più. antico originario rapporto tra persone che esista, nel rapporto tra compratore e venditore, creditore e debitore: qui, per la prima volta, si fece innanzi persona a persona, qui per la prima volta si misurò persona a persona. Non si è ancora trovato un grado di civiltà tanto basso in cui non si lasciasse porre in evidenza già qualcosa di questo rapporto. Stabilire prezzi, misurare valori, escogitare equivalenti, barattare – ciò ha preoccupato il primissimo pensiero dell’uomo in una tale misura, che in un certo senso pensare è tutto questo: qui è stata coltivata la più antica sorta di perspicacia, qui si potrebbe supporre il primo avvio dell’umano orgoglio, del suo sentimento di primato rispetto agli altri animali. Forse la nostra parola «Mensch» (manas) esprime ancora qualcosa appunto di questo senso di se (…) Compera e vendita, unitamente ai loro accessori psicologici, sono più antiche degli stessi cominciamenti di qualsiasi forma di organizzazione sociale e di qualsivoglia consociazione: il germogliante sentimento di scambio, contratto, debito, diritto, dovere, compensazione, si è invece in primo luogo trasferito dalla forma più rudimentale del diritto personale ai più grezzi e più primitivi complessi comunitari (nei loro rapporti con complessi simili), assieme alla consuetudine di confrontare potenza a potenza, di stabilirne la misura e farne il computo. L’occhio era ormai adattato a questa prospettiva: e con quella rozza consequenzialità che è caratteristica del pensiero della più antica umanità tardo a muoversi, ma poi spietato nel procedere in un’unica direzione, si giunse ben presto, con grossa generalizzazione, a «ogni cosa ha il suo prezzo; tutto può essere comprato» – al più antico e ingenuo canone morale della giustizia, al principio di ogni «bontà d’animo», di ogni «equità», di ogni «buona volontà», di ogni «obiettività» sulla terra.
Nota 12 Si determina qua come fondamento per lo sviluppo di ogni civiltà il rapporto mercantile. Ovviamente, se ne inferisce che la futura radiosa società del superuomo non potrà sfuggire a questa legge universale. In “la volontà di potenza” chiarirà nei dettagli il suo appoggio ad una società basata sulla proprietà privata ed esclusiva di ogni bene.
Nei successivi par 9 e 10, N. si esibisce in una sua dotta disquisizione sugli ulteriori fondamenti del diritto, che nulla aggiungono a quanto sinteticamente già visto, per “dimostrare” ancora una volta la legittimità dei rapporti fondati sulla proprietà, comunque ottenuta, di beni materiali e/o di capitali, e del suo personale concetto di giustizia.
Ancora una volta inoltre considera indecente “avere vergogna” dei periodi di selvaggio ritorno ai primordi della società umana ed degli istinti animaleschi: la intera storia della socialità è non una storia di sviluppo ma una storia di involuzione e di disfacimento dei sacri istinti bestiali.
pag 65 par 11 Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso; in sé offendere, far violenza, sfruttare, annientare non può naturalmente essere nulla di «illegittimo», in quanto la vita si adempie essenzialmente, cioè nelle sue funzioni fondamentali, offendendo, facendo violenza, sfruttando, annientando e non può essere affatto pensata senza questo carattere. C’è persino qualcosa di più serio, che dobbiamo ancora confessare a noi stessi: che dal supremo punto di vista biologico, stati di diritto possono essere sempre soltanto stati eccezionali, essendo parziali restrizioni della peculiare volontà di vivere che ha di mira la potenza, e subordinandosi in quanto strumenti particolari allo scopo complessivo di tale volontà: come strumenti cioè per, creare più grandi unità di potenza. Un ordinamento giuridico pensato come sovrano e generale, non come strumento nella lotta di complessi di potenza, bensì come strumento contro ogni lotta in generale, pressappoco secondo il modello comunista di Dȕhring, che ogni volontà debba considerare eguale Pag 29
ogni volontà, sarebbe un principio ostile alla vita, un ordinamento distruttore e disgregatore dell’uomo, un attentato all’avvenire dell’uomo, un’ indice di stanchezza, una via traversa verso il nulla.
Nota 13 Il Supremo punto di vista biologico: N. ricorre ancora una vota a un qualche supremo punto di vista, spesso quello storico, ora quello scientifico. Rimando a quanto già osservato a pag 7: N. sul piano scientifico era molto meno che un dilettante, ma era al contempo un vero professionista nel campo della roboante retorica totalmente priva di ogni sostrato.
I tanti Supremi Principi da lui invocati sono solo le tante forme che assume quell’Assoluto Metafisico che, per crearsi un proprio spazio filosofico, N. sostiene a giorni alterni di avere abolito.
Quello che conta, per N. ma sopratutto per i suoi committenti, è la legittimazione di “offendere, far violenza, sfruttare” Tutto il resto sono piroette, è vanità.
Pag 67 par 12 (…) il progressus reale compare come tale sempre in figura di volontà e cammino inteso a una più grande potenza e sempre si attua a spese di innumerevoli potenze più piccole. La grandezza di un “progresso” si misura persino alla stregua di tutto ciò che ha dovuto essergli sacrificato; l’umanità in quanto massa sacrificata al rigoglio di una singola più forte specie umana . Questo sarebbe progresso. (…) Si è definita la vita stessa come un intrinseco adattamento, sempre più finalistico, a circostanze esteriori (Herbert Spencer). Ma viene disconosciuta, in tal modo, l’essenza della vita, la sua volontà di potenza; ci si lascia sfuggire la priorità di principio che hanno le forze spontanee, aggressive,sormontanti capaci di nuove interpretazioni, di nuove direzioni e plasmazioni, alla cui efficacia l’«adattamento» viene solo dietro; si nega cosi nell’organismo il ruolo egemonico esercitato dai più alti detentori delle sue funzioni, nei quali la volontà vitale si manifesta in guisa attiva e informante. (…)
pag 68 par 13 – Per tornare all’argomento, vale a dire alla pena, occorre distinguere in essa due cose: da un lato, la sua relativa durevolezza, l’uso, l’atto, il «dramma», una certa rigorosa successione di procedure, dall’altro, la sua fluidità, il significato, lo scopo, l’attesa, che si connette all’esecuzione di tali procedure. A questo proposito è senz’altro presupposto, per analogiam, coerentemente al punto di vista principale, testé svolto, della metodologia storica, che la procedura stessa sarà qualcosa di più antico, di anteriore alla sua utilizzazione in rapporto alla pena; che quest’ultima è stata dapprima introdotta e interpretata all’interno della procedura (già da un pezzo esistente, ma usata in un altro senso); insomma che le cose non stanno cosìccome le hanno fino a oggi ammesse i nostri ingenui genealogisti della morale e del diritto, che si immaginavano tutti quanti la procedura come fosse escogitata ai fini della pena, cosi come ci si immaginava, una volta, la mano escogitata allo scopo d’afferrare. Per quanto concerne quell’altro elemento della pena, quello fluido, il suo «significato», il concetto di «pena» non presenta più, in realtà, in uno stato molto tardo della civiltà (per esempio nell’Europa odierna), un unico significato, bensì un’intera sintesi di «significati»; la precedente storia della pena in generale, la storia della sua utilizzazione ai fini più diversi finisce per cristallizzarsi in una sorta di unità, che è difficile a risolversi, difficile ad analizzarsi e, occorre sottolinearlo, del tutto impossibile a definirsi. (È oggi impossibile dire esattamente per quale ragione si addiviene alla pena: tutte le nozioni, in cui si condensa semioticamente un intero processo, si sottraggono alla definizione; definibile è soltanto ciò che non ha storia). In uno stadio anteriore codesta sintesi di «significati» appare invece più dissolubile, nonché più scomponibile; ci si può ancora rendere conto di come, per ogni singolo caso, gli, elementi della sintesi modifichino la loro valenza e quindi il loro ordine, sicché ora questo, ora quell’elemento risalta e domina a spese degli altri, anzi talvolta un elemento (per esempio, lo scopo dell’intimidazione) sembra sopprimere tutti quanti gli elementi restanti. Per dare almeno un’idea di come sia incerto, suppletivo, accidentale il «significato» della pena e di quanto una sola e identica procedura possa essere utilizzata, interpretata, riassettata in vista di propositi radicalmente diversi: ecco qui lo schema che mi si é venuto determinando sulla base stessa di un materiale relativamente esiguo e casuale. Pena come Pag 30
neutralizzazione di pericolosità, come impedimento di un ulteriore danno. Pena come risarcimento del danno al danneggiato, qualsivoglia forma (anche in quella di una compensazione d’affetti). Pena come isolamento di un’alterazione d’equilibrio, per prevenire un propagarsi di tale alterazione. Pena come instillazione di timore di fronte a coloro che determinano e danno esecuzione alla pena. Pena come una sorta di compensazione per i vantaggi che il delinquente ha goduto fino a quel momento (per esempio, ove venga utilizzato come schiavo di miniera). Pena come (…)
Nota 14 In questa lunghissima, noiosa ed inutile sezione del testo, N. si improvvisa profondo giurista. Tenta quindi di accreditare la sua definitiva assoluzione degli orrori degli imperialismi che lo hanno preceduto (perché il fatto non costituiva reato!) e la preventiva assoluzione di quelli che seguiranno, a favore dei quali appunto scrive le sue opere.
pag 74 par 16 (…) Tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono all’interno – questo è quella che io chiamo interiorizzazione dell’uomo: in tal modo soltanto si sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chiamata la sua «anima». L’intero mondo interiore, originariamente sottile come fosse teso tra due epidermidi, si è stemperato e dischiuso; ha acquistato profondità, latitudine, altezza a misura che è stato impedito lo sfogo dell’uomo all’esterno. Quei terribili bastioni con cui l’organizzazione statale si proteggeva contro gli antichi istinti della libertà – le pene appartengono soprattutto a questi bastioni – fecero sì che tutti codesti istinti dell’uomo selvaggio, libero, divagante si volgessero a ritroso, si rivolgessero contro l’uomo stesso. L’inimicizia, la crudeltà, il piacere della persecuzione, dell’aggressione, del mutamento, della distruzione – tutto quanto si volge contro i possessori di tali istinti: ecco l’origine della «cattiva coscienza». L’uomo che in mancanza di nemici esterni e di resistenze, rinserrato in una opprimente angustia e normalità di costumi, faceva impazientemente a brani se stesso, si perseguitava, si rodeva, si aizzava, si svillaneggiava, quest’animale che si vuole «ammansire» e dà di cozzo alle sbarre della sua cella fino a coprirsi di piaghe, questo essere che manca di qualcosa, che si strugge nella nostalgia del deserto e che deve far di se stesso un’avventura, una camera di supplizi, una selva insicura e perigliosa – questo giullare, questo desioso e disperato prigioniero divenne l’inventore della «cattiva coscienza». Con essa fu però introdotta la più grande e la più sinistra delle malattie, di cui fino a oggi l’umanità
non è guarita, la sofferenza che ha dell’uomo, di sé: conseguenza di una violenta separazione dal suo passato d’animale, (…) di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui quali fino al allora riposava la sua forza, il suo piacere e la sua terribilità. Aggiungiamo subito che, d’altro canto, col fatto di un’anima animale rivolta contro se stessa, intenta a prender partito contro se stessa, si era presentato sulla terra qualcosa di tanto nuovo, profondo, inaudito, enigmatico, colmo di contraddizioni e colmo d’avvenire, che l’aspetto della terra ne fu sostanzialmente trasformato.
Nota 15 segue una interminabile, inutile e ancor più illeggibile dissertazione, funzionale solo ad ammantare di una veste di analisi storico-filosofica la banalità della equazione nietzscheana uomo (vero) = belva. Ne sconsigliamo la lettura.
(…) In realtà, ci sarebbero voluti spettatori divini per apprezzare lo spettacolo che in tal modo aveva avuto inizio e di cui non è ancora assolutamente prevedibile la fine – uno spettacolo troppo squisito, troppo meraviglioso, troppo paradossale perché potesse svolgersi assurdamente inosservato su un qualche ridicolo astro ! Da allora l’uomo è annoverato tra le più inaspettate e stimolanti mosse azzeccate che gioca il «grande fanciullo» eracliteo, si chiami Zeus o caso – desta per sé un interesse, una tensione, una speranza, quasi una certezza, come se con lui qualcosa si annunziasse, qualcosa si preparasse, come se l’uomo non fosse una meta, ma soltanto una via, un episodio, un ponte, una grande promessa . . .
pag 75 par17 Tra i presupposti di questa ipotesi sull’origine della cattiva coscienza rientra in primo luogo la circostanza che quella metamorfosi non è stata né graduale, né volontaria e non si è Pag 31
presentata come uno sviluppo organico all’interno di nuove condizioni, bensì come una frattura, un salto, una costrizione, un’inevitabile fatalità, contro la quale non era possibile lotta e neppure ressentiment. In secondo luogo, peraltro, il fatto che l’inserimento in una stabile forma, di una popolazione sino allora sfrenata e amorfa, allo stesso modo che aveva avuto inizio con un atto di violenza, così soltanto con manifesti atti di violenza venne condotto a termine – che, coerentemente a ciò, il più antico «Stato» apparve come una spaventevole tirannide, un meccanismo stritolatore e senza scrupoli, e prosegui questa sua opera finché una tale materia grezza di popolo e di semianimalità non soltanto venne finalmente bene impastata e resa cedevole, ma anche dotata di una forma. Ho usato la parola «Stato»: va da sé a quale intendo, con ciò, alludere: un qualsiasi branco d’animali da preda, una razza di conquistatori e di padroni che, guerrescamente organizzata e con la forza di organizzare, pianta senza esitazione i suoi terribili artigli su una popolazione forse enormemente superiore di numero, ma ancora informe, ancora errabonda. In questo modo ha inizio sulla terra lo «Stato»: penso che sia liquidata quella fantasticheria che lo faceva cominciare con un «contratto». Colui che può comandare, che è naturalmente «signore», che si fa innanzi dispotico nell’opera e nell’ atteggiamento – che cosa mai ha a che fare con contratti! Con tali esseri non si fanno calcoli, sopraggiungono come il destino, senza un motivo, una ragione, un riguardo, un pretesto, esistono come esiste il fulmine, troppo terribili, troppo repentini, troppo persuasivi, troppo «diversi» per essere anche soltanto odiati. L’opera loro è un’istintiva plasmazione di forme, espressione di forme, sono gli artisti più spontanei, più inconsapevoli che esistano – insomma esiste qualcosa di nuovo, dove essi appaiono, una concrezione di dominio che vive, nella quale parti e funzioni sono circoscritte e messe in connessione, nella quale non trova posto alcuna cosa in cui non sia prima immesso un «senso» in vista del tutto. Essi ignorano che cosa sia colpa, responsabilità, scrupolo, questi organizzatori nati; regna in loro quel terribile egoismo di artisti che ha uno sguardo bronzeo e nell’ «opera» si sa giustificato in anticipo per tutta l’eternità, come la madre nel figlio. Non sono costoro quelli nei quali è allignata la «cattiva coscienza» lo si comprende fin dal principio – tuttavia,senza di loro, non sarebbe cresciuta, questa brutta pianta, essa sarebbe assente se sotto il peso dei loro colpi di martello, della loro violenza di artisti non fosse stato eliminato dal mondo, o per lo meno dalla vista e, per così dire, reso latente un enorme quantum di libertà. Questo istinto della libertà,reso latente a viva forza,lo abbiamo già capito – questo istinto della libertà represso, rintuzzato, incarcerato nell’intimo, che non trova infine altro oggetto su cui ancora scaricarsi e disfrenarsi se non se stesso: questo, soltanto questo è, nel suo cominciamento, la cattiva coscienza.
Pag 77 par 18 Ci si guardi dal tributare una scarsa importanza a tutto questo fenomeno per il semplice fatto che esso è, fin dall’inizio, brutto e doloroso. In fondo, la stessa forza attiva che in codesti artisti della violenza, nonché organizzatori, si mostra più grandiosamente all’opera e edifica Stati è per l’appunto quella che qui, interiormente, più esigua, più limitata, volta a ritroso, nel «labirinto del cuore», per dirla con Goethe, si crea la cattiva coscienza e costruisce ideali negativi, è precisamente lo stesso istinto della libertà (per esprimermi nel mio linguaggio: la volontà di potenza): solo che la materia su cui si scatena la natura plasticamente formatrice e tirannica di questa forza, è qui appunto lo stesso uomo, il suo intero, animalesco, antico sé – e non, come in quell’altro fenomeno più grande e più appariscente, l’altro uomo, gli altri uomini. Questa segreta tirannide su se stessi, questa crudeltà di artisti, questo piacere di dare a se stessi, quasi greve, riluttante, sofferente materia, una forma, di marchiare a fuoco una volontà, una critica, una contraddizione, un disprezzo, un no, questo sinistro e orrendamente gioioso travaglio di un’anima docilmente scissa in se stessa, che si cagiona dolore per gusto di cagionare dolore, tutta questa «cattiva coscienza» attiva ha infine – già lo si indovina -, in quanto vero e proprio grembo materno di ideali e fantastici eventi, dato altresì alla luce una profusione di nuove sorprendenti bellezze e affermazioni e forse, per la prima volta, innanzitutto la bellezza . . . Che cosa, infatti, sarebbe «bello», se prima la contraddizione non fosse divenuta cosciente a se stessa, se prima il brutto non avesse detto a se stesso: «Io sono brutto»? Per lo meno, dopo quest’accenno, sarà meno ambiguo l’enigma: fino a. che punto, cioè, in concetti contraddittori come disinteresse, abnegazione,
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autosacrificio possa essere indicato un ideale, una bellezza; e una cosa d’ora innanzi sarà nota – non ne dubito – vale a dire di quale specie è il piacere che prova il disinteressato, il negatore di se stesso, l’immolatore di sé: questo piacere rientra nella crudeltà. Tanto andava detto in via provvisoria sull’origine del «non egoistico» in quanto valore morale e sulla delimitazione del terreno da cui è germogliato questo valore: soltanto la cattiva coscienza, soltanto la volontà di svillaneggiare se stessi fornisce il presupposto per il valore del non egoistico –
Nota 16 a) E’ chiaro ora il ruolo centrale che N. attribuisce allo “stato”? Al suo Stato?
b)Qua viene esplicitato in forma non ambigua il concetto di “libertà” per N.: libertà per la casta dei vincenti di opprimere, violentare, sfruttare, uccidere.
c) Si noti come la conclusione di tanto prolisso argomentare non abbia nessun nesso con quanto argomentato, sta lì, appesa come un inutile suppellettile, nemmeno funzionale al prosieguo del discorso.
pag 78 par 19 (…) Nell’ ambito dell’originaria comunità di stirpi – parliamo dei primordi – la generazione vivente riconosce ogni volta un’obbligazione giuridica nei confronti di quella più antica, fondatrice della stirpe (e in nessun modo un semplice vincolo sentimentale: non senza ragione si potrebbe perfino negare in generale quest’ultimo per il più lungo periodo della specie umana). Domina qui la persuasione che la specie unicamente sussiste grazie ai sacrifici e alle opere degli antenati – questi devono essere ripagati loro con sacrifici e opere: si riconosce, quindi, un debito che continua a crescere costantemente per il fatto che questi avi, perpetuando la esistenza come spiriti possenti, non cessano di assicurare alla specie nuovi vantaggi e prestiti da parte della loro forza. Gratuitamente forse? Ma non esiste alcun «gratuitamente» per quelle età rozze e «spiritualmente povere».
Che cosa si può dar loro in contraccambio? Sacrifici (inizialmente per il nutrimento, nel senso più grossolano feste, tempietti, atti di omaggio, soprattutto obbedienza – tutti gli usi infatti, in quanto opera dei progenitori, sono anche prescrizioni e comandi loro -: si dà mai abbastanza a essi? Tale sospetto permane e cresce: di tempo in tempo esso impone un grande riscatto in blocco, un qual che mostruoso indennizzo al «creditore» (il famigerato sacrificio del primogenito, per esempio, sangue, sangue umano in ogni caso).
pag 80 par 20 (…) La coscienza di essere in debito nei confronti della divinità non si estingue – come insegna la storia – neppure dopo il declino di quella forma d’organizzazione della «comunità» fondata sull’affinità di sangue: alla stessa guisa con cui ha ereditato le nozioni di «buono e cattivo» dalla nobiltà di stirpe (unitamente alla sua fondamentale tendenza psicologica a stabilire gerarchie), l’umanità ha ricevuto, insieme con l’eredità delle divinità della stirpe e della tribù, anche quella del peso di debiti non ancora soddisfatti e del desiderio di estinguerli. (Segnano il trapasso quelle vaste popolazioni di schiavi e di servi della gleba che, sia per costrizione, sia per sottomissione e mimicry, si sono adattati al culto divino dei loro padroni: da essi questa eredità si riversa in ogni direzione). Il senso di un debito nei confronti della divinità non ha cessato di crescere per parecchi millenni e per la verità sempre nella stessa proporzione con cui sono cresciuti e sono stati portati in alto sulla terra il concetto di dio e il senso della divinità. (L’intera storia delle lotte, delle vittorie, delle conciliazioni, delle fusioni etniche, tutto quanto precede il definitivo assetto gerarchico di tutti gli elementi popolari in ogni grande sintesi di razze, si rispecchia nel guazzabuglio genealogico dei loro dei, nelle saghe delle loro battaglie, vittorie e pacificazioni: il progresso verso imperi universali è sempre altresì il progresso verso divinità universali, il dispotismo con la sua sopraffazione dell’aristocrazia autonoma apre sempre altresì la strada a una qualche specie di monoteismo). L’avvento del Dio cristiano, in quanto massimo dio che sia stato fino ad oggi raggiunto, ha portato perciò in evidenza sulla terra, anche il maximum del senso di debito.
Ammesso che si sia entrati con l’andar del tempo nel movimento opposto, si potrebbe, con non poca Pag 33
verosimiglianza, derivare dall’inarrestabile declino della fede nel Dio cristiano il fatto che già oggi si sta determinando anche un considerevole declino della umana coscienza di colpa; anzi non si può respingere la prospettiva che la compiuta e definitiva vittoria dell’ateismo potrebbe affrancare l’umanità da tutto questo suo sentirsi in debito verso il proprio principio, la propria causa prima. Ateismo e una sorta di seconda innocenza sono intrinsecamente connessi. –
Nota 17 – La strumentalità della celebrata scoperta dell’ateismo, della morte di Dio, da parte di N., balza qua con la massima evidenza: eliminazione di Dio non per una rivendicazione di indipendenza di pensiero dai canoni della metafisica, ma per consentire la assoluzione e la glorificazione dei suoi committenti, in evidente difficoltà a far coesistere Nuovo Testamento e orrori della conquista e gestione del potere da parte delle più efferate bande imperialiste. Così N. ottiene in un sol colpo un doppio risultato: accreditarsi come filosofo rivoluzionario da un lato, e come filosofo reazionario dall’altro.
L’ultimo, lunghissimo, periodo offre lo spunto per una utile riflessione: il portavoce dell’irrazionalismo filosofico, come troppo spesso viene definito, tenta disperatamente, con esiti ahimè catastrofici, di accreditare ancora una volta le sue elucubrazioni con argomentazione rivestite di un manto tanto rigorosamente razionale quanto privo di fondamenti su cui basarlo.
Pag 81 par 21 Questo è quanto provvisoriamente va detto, in breve e a grandi linee, sul nesso esistente tra le nozioni di «colpa», «dovere» e i loro presupposti religiosi: di proposito, ho sinora lasciato in disparte la caratteristica moralizzazione di questi concetti (lo spostamento dei medesimi nella coscienza, o ancor più precisamente, l’invilupparsi della cattiva coscienza con l’idea di dio) e al termine del paragrafo precedente ho perfino parlato come se la moralizzazione non ci fosse affatto, come se, di conseguenza, questi concetti fossero ormai sul punto di essere liquidati, essendo caduto il loro presupposto, la fede nel nostro «creditore», Dio. Da ciò si distanzia terribilmente il dato di fatto. Con la moralizzazione delle nozioni di colpa e di dovere, con il loro spostarsi indietro a cattiva coscienza, si è fatto realmente il tentativo di rovesciare la direzione dello sviluppo testé descritto o per meno di arrestarne il movimento:(…)
Nota 18 Continuando nel tentativo di liberare i suoi idoli dalla remora della morale cristiana, N. crea un complesso e farraginoso meccanismo con il quale bypassa la cattiva coscienza degli eredi degli sterminatori e degli aspiranti tali. Il suo “ateismo” è ancora una volta strumentale a questo suo obbiettivo fondamentale, ideologico e politico. Su cosa, maldestramente, tale meccanismo si fondi, viene sintetizzato così:
pag 82 (…) -finché eccoci all’improvviso di fronte al paradossale e spaventoso espediente in cui la martoriata umanità ha trovato un momentaneo sollievo, quel tratto geniale del cristianesimo: Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell’uomo, Dio stesso che si ripaga su se stesso, Dio come l’unico che può riscattare l’uomo da ciò che per l’uomo stesso è divenuto irriscattabile – il creditore che si sacrifica per il suo debitore, per amore (dobbiamo poi crederci?), per amore verso il suo debitore ! ..
Nota 19 Pagine e pagine, profusione di ragionamenti, in definitiva privi di quello che si può chiamare una base generale, rivolta invece esclusivamente ai paesi di tradizione cristiana. Ma forse, nella limitata visione nietzscheana, le altre tradizioni religiose semplicemente non esistono, espressioni, come sono, di razze inferiori. Cita qua e la, distrattamente, le tradizioni religiose indiane e buddiste. Segnala qualche aspetto, i più clamorosi, di incongruenza delle varie teologie senza riuscire minimamente a coglierne i fondamenti. Cosa che oltretutto non è evidentemente di suo interesse.
Pag 82 par 22 Si sarà già indovinato che cos’è realmente accaduto con tutto ciò e al di sotto di tutto ciò: quella volontà di straziarsi, quella rintuzzata crudeltà dell’animale-uomo interiorizzato,
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ricacciato in se stesso, dell’incarcerato nello «Stato» ai fini dell’ ammansimento, il quale per cagionarsi dolore, essendo sbarrata la più naturale via di liberazione, di questo voler-cagionar-dolore, ha escogitato la cattiva coscienza – quest’uomo della cattiva coscienza si è impadronito del presupposto religioso per spingere il proprio automartirio fino alla sua più orribile crudezza e sottigliezza.
Un debito verso Dio: questo pensiero diventa per lui strumento di tortura. Afferra in Dio le antitesi estreme che riesce a trovare in rapporto aí suoi caratteristici e non riscattabili istinti animali, reinterpreta questi stessi istinti animali come una colpa verso Dio (come inimicizia, ricalcitramento, rivolta contro il «Signore», il «Padre», il progenitore e il principio del mondo), si tende nella contraddizione «Dio» e «diavolo», ogni no che dice a se stesso, alla natura, alla naturalità, alla realtà del suo essere, lo proietta fuori di sé come un si, come qualcosa d’esistente, di corporeo, di reale, come Dio, come santità d’Iddio, come tribunale d’Iddio, come patibolo d’Iddio, come al di là, come eternità, come strazio senza fine, come inferno, come incommensurabilità di pena e colpa.
Questo è una specie di delirio della volontà nella crudeltà psichica che non ha assolutamente eguali: la volontà dell’uomo di trovarsi colpevole e riprovevole fino all’impossibilità d’espiazione, la sua volontà di infettare e intossicare col problema della pena e della colpa le più profonde radici delle cose, la sua volontà dì pensarsi castigato, senza che il castigo possa mai essere equivalente alla colpa, per tagliarsi una volta per tutte la via d’uscita da questo labirinto di «idee fisse», la sua volontà di erigere un ideale – quello del «Dio santo» -, e di acquistare una tangibile certezza della propria assoluta indegnità di fronte a lui. Oh dissennata triste, bestia, l’uomo! Quali fantasie le vengono in mente, e non appena si vede un poco impedita di essere bestia dell’azione, quale contronatura erompe, quali parossismi di follia, quale bestialità dell’idea! . . . Tutto ciò è di uno smisurato interesse, ma anche di una tristezza nera, fosca, sfibrante; dobbiamo davvero impedirci a forza di scrutare troppo a lungo in questi abissi. Qui c’è malattia, non v’è dubbio, la più tremenda malattia che sia infuriata sino a oggi nell’uomo – (…) Nell’uomo v’ è tanto di terribile! . . . Già troppo a lungo la terra fu un manicomio! (…)
Noi uomini moderni, noi siamo gli eredi di una millenaria vivisezione della coscienza e di una tortura da bestie rivolta contro noi stessi: abbiamo in tutto ciò il nostro più lungo esercizio forse la nostra vocazione da artisti, in ogni caso il nostro affinamento e pervertimento del gusto. Troppo a lungo l’uomo ha considerato le sue tendenze naturali con un «cattivo sguardo», cosicché queste hanno finito per congiungersi strettamente in lui con la «cattiva coscienza».
Sarebbe in se possibile un tentativo opposto – ma chi è abbastanza forte per questo? -, vale a dire quello di congiungere indissolubilmente con la cattiva coscienza le tendenze innaturali, tutte quelle aspirazioni al trascendente, all’anti-senso, all’anti-istinto, all’anti-natura, all’anti-animale, insomma gli ideali esistiti sino a oggi, che sono tutti quanti ideali ostili alla vita, ideali calunniatori del mondo.
A chi rivolgersi oggi con, tali speranze e rivendicazioni? … Avremmo contro di noi proprio gli uomini buoni; inoltre, come e ovvio, i pigri, i pacificati, i vanitosi, i sognatori, gli stanchi. . . Che cosa offende più a fondo, che cosa divide più radicalmente, se non dare a conoscere un po’ di quel rigore e di quella sublimità con cui trattiamo noi stessi? E d’altro lato – con quanta compiacenza e amorevolezza ci viene incontro il mondo, non appena ci comportiamo come tutti e come tutti ci «lasciamo andare»! . . .
Ci vorrebbe, per quella meta, una specie di spiriti diversa da quelli che sono proprio in quest’epoca verosimili: spiriti fortificati da guerre e vittorie, per i quali la conquista, l’avventura, il pericolo, il dolore, sono diventati addirittura un bisogno; ci vorrebbe, per tutto questo, l’abitudine all’aria tagliente delle altitudini, alle peregrinazioni invernali, a ghiaccio e montagne in ogni senso, ci vorrebbe persino una specie di sublime malvagità, di quella suprema malignità della conoscenza, cosciente di se stessa; che appartiene alla grande salute, ci vorrebbe in breve, e la cosa è piuttosto seccante, appunto questa grande salute! . . . È questa, proprio oggi, anche soltanto possibile? . . . Ma in un qualche tempo, in un’età più forte di questo, marcido, dubitoso presente, dovrà pur
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giungere a noi l’uomo redentore, l’uomo del grande amore e disprezzo, lo spirito creatore, che sempre la sua forza incalzante torna a spingere via da ogni eremo e da ogni trascendenza, colui la cui solitudine è fraintesa dal popolo, come se fosse una fuga dalla realtà – mentre è soltanto il suo sprofondare, il suo seppellirsi, il suo inabissarsi nella realtà, affinché un giorno, quando tornerà alla luce, porti fuori da essa a casa sua la redenzione di questa realtà: la sua redenzione dalla maledizione che ha posto su di essa l’ideale esistito sino a oggi.
Quest’ uomo dell’avvenire, che ci redimerà tanto dall’ ideale perdurato sinora, quanto da ciò che dovette germogliare da esso, dal grande disgusto, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco di campane del mezzodì e della grande decisione, il quale nuovamente affranca volontà, restituisce alla terra la sua meta e all’uomo la sua speranza, questo anticristo e antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla – dovrà – un giorno venire . . .
pag 87 par 25 – Ma che cosa sto dicendo ora? Basta! Basta! A questo punto una cosa sola a me si conviene, il silenzio: altrimenti mi arrogherei ciò che unicamente a chi è più giovane è consentito, a un «venturo», a uno più forte di quanto sia io – ciò che unicamente è consentito a Zarathustra, a Zarathustra il senza Dio . . .
Nota 20 Appare difficilmente comprensibile come studiosi accorti non abbiano colto in questa lunghissima dissertazione non le tracce, ma la corposa sostanza di una grave, patologica, sofferenza, anzi di inversione, psichica. Senza riuscire, ovviamente, a chiarirne le cause, N., se sfrondiamo i fiumi di inutili orpelli, afferma che, per qualche misterioso motivo, di cui non prova nemmeno a definire i contorni, l’ umanità abbia stabilito, con una specie di delirio della volontà nella crudeltà psichica che non ha assolutamente eguali (…) di impedirsi di essere bestia dell’azione. Quali parossismi di follia, quale bestialità dell’idea!
Qui c’è malattia, non v’è dubbio, la più tremenda malattia che sia infuriata sino a oggi nell’uomo – (…) Nell’uomo v’ è tanto di terribile! . . . Già troppo a lungo la terra fu un manicomio! (…) .
Su decine di motivazioni da addurre legittimamente per argomentare la inconsistenza del concetto metafisico di Dio, qual’è quella addotta da N.? Quella secondo la quale Dio fu escogitato (da chi?) per creare un ostacolo alla libera espressione nell’ uomo della violenza ancestrale, della violenza della belva feroce. Cioè la più incongruente, priva di fondamento teoretico e quindi in definitiva meta-fisica delle argomentazioni possibili.
Rimane solo un dubbio nella lettura di questa roba: Qual’ è la percentuale di componente paranoide e quale quella della puntuale esecuzione di un compito arduo, quello del tentativo di assoluzione delle nefandezze dei suoi committenti, dei loro antenati e dei loro eredi? Forse la risposta sta nella fortuita coincidenza della personalità paranoide e dalla volontà di autoaffermazione ad ogni costo di un personaggio indubbiamente anomalo quale F.N.
Nella chiusura del par 24, N. fa appello agli spiriti fortificati da guerre e da vittorie, dotati di sublime malvagità, all’ uomo redentore, all’ uomo del grande amore e disprezzo.
Ebbene, D’Annunzio glorifica, come visto, N. già nel 1892, Mussolini nel 1905, Hitler scrive il suo Mein Kampf a partire dal 1924, ma gli evidenti prelievi, talvolta trascrizioni, dalle opere di N. sono indubbiamente anteriori. E’ evidente che i tempi erano quanto mai propizi per una trasformazione, o meglio per un uso del pensiero di N. come piattaforma ideologica di una prassi politico-criminale.
TERZA DISSERTAZIONE
CHE SIGNIFICANO GLI IDEALI ASCETICI ?
Nota 21 I primi 8 paragrafi di questa dissertazione costituiscono esclusivamente la risposta di N. al suo ex-estimatore R.Wagner che, di fronte a tale profluvio di contorcimenti mentali aveva tagliato i ponti del loro sodalizio. Sono 15 pagine di divagazioni sulla deviazione del suo ex-idolo verso ideali poco aggressivi e misticheggianti (in quegli anni aveva composto il Parsifal) ritenuti da N. decadenti, romantici e rinunziatari. Sconsigliamo di impiegare tempo prezioso su tali aspetti del tutto secondari ed ininfluenti rispetto al focus dei problemi in questione.
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Nei par. che seguono N. tenta di far convivere il rispetto che il mondo del cultura accademica reazionaria del suo tempo tributava agli ideali ascetici dei “veri” filosofi, con la sua predicazione di una società fondata sulla violenta e sanguinaria oppressione di ogni forma di dissenso.
Pag 105 par 9 Un certo ascetismo, abbiamo visto, una dura e serena rinuncia spontaneamente voluta appartiene alle condizioni favorevoli di un’altissima spiritualità, come pure sue più naturali conseguenze: cosi fin dall’inizio non sarà da stupirsi se l’ideale ascetico non e mai state trattato dai filosofi senza qualche prevenzione favorevole. In una seria verifica storica il nesso tra ideale ascetico e filosofia risulta persino ancor più stretto e rigoroso. Si potrebbe dire che unicamente tenendosi alla dande di tale ideale la filosofia ha imparato, in genere, a fare i suoi primi passi e passettini sulla terra — ahimè, ancora così maldestra, ahimè, con aria ancora cosi scontenta ahimè, e cosi pronta a fare un capitombolo e a starsene giù bocconi, questo piccolo timido esserucolo goffo e deboluccio dalle gambe storte! Sul principio è accaduto alla filosofia come a tutte le cose buone – per lungo tempo non ebbero il coraggio di essere se stesse, si sbirciavano sempre attorno, caso mai stesse per venire qualcuno in aiuto, e peggio ancora, avevano paura di tutti quelli le stavano a guardare. Passiamo in rassegna i singoli impulsi e le singole virtù del filosofo — il suo impulso analitico, il suo impulso alla negazione, i suo impulso ad attendere («efectico»), il suo impulso all’indagine, alla ricerca, al rischio, il suo impulso a confrontare e a compensare, la sua volontà di neutralità e d’oggettività,(…)
Ho messo in luce in «Aurora», pp. 17 seg. «Niente è stato pagato a più caro prezzo, si dice qui a pag. 19, di quel poco di ragione umana e di senso della libertà che oggi costituisce la nostra fierezza. Ma è questa fierezza ciò per cui ora ci diventa quasi impossibile concordare nel sentimento con quegli immensi periodi di tempo dell’ “«eticità del costume», i quali precedono la “storia universale”, in quanto reale e decisiva storia primaria che ha stabilito il carattere dell’umanità: quando soffrire era stimato virtù, la crudeltà virtù, la dissimulazione virtù, la vendetta virtù, la negazione della ragione virtù; mentre invece il benessere era stimato pericolo, l’avidità di sapere pericolo, la pace pericolo, la compassione pericolo, l’essere compassionati oltraggio, il lavoro oltraggio, la follia divinità, il mutamentomancanza di eticità e realtà gravida di distruzione !» .. .
Nota 22 A fondamento del conclamato diritto dei potenti a crearsi ed ad esercitare ovunque e comunque ogni potere immaginabile, N. , con una seria verifica storica cita se stesso, da “Aurora”, come diritto acquisito “negli immensi periodi di tempo dell’ «Eticità del costume»…” Come ben emerge, con straordinaria precisione storica ed antropologica, su cui fonda tutto il suo argomentare che intende presentare come un dotto e logico processo scientifico-razionale.
E di un processo di questo genere pretende di avere la forma, con partenza da un nucleo di assiomi, sviluppo logico-formale, tesi conclusive – (illimitato diritto dei potenti ad esercitare il dominio imperiale sul resto della umanità). Purtroppo per lui e per i suoi seguaci e critici benevoli, gli assiomi su cui fonda l’immensa sua opera sono del tipo qua da lui perfettamente illustrati e su cui riflettere. Ci torneremo più avanti.
pag 108 par 10 Nello stesso libro, p. 39, è chiarito secondo quale apprezzamento, sotto quale pressione d’apprezzamento dovette vivere la più antica stirpe di uomini contemplativi disprezzata precisamente nella stessa misura nella qual non era temuta! La contemplazione è apparsa per la prima volta sulla terra camuffata nella figura, ambigua nell’aspetto, con un malvagio cuore e spesso con una testa piena d’inquietudine: di ciò non v’è dubbio alcuno. Quel che v’è di inattivo, di arrovellantesi, di poco guerresco negli istinti di uomini contemplativi dispose a lungo intorno a loro un cerchio di profonda diffidenza: contro di ciò non restò alcun altro mezzo che suscitare risolutamente paura di sé. E in questo avevano non poca perizia, per esempio, gli antichi brahmani! I più antichi filosofi seppero dare alla loro esistenza e al loro apparire un senso, un sostegno e uno sfondo, a cagione del quale si apprese a temerli: e se si considera la cosa con maggior esattezza, essi fecero ciò sulla base di un bisogno ancor più fondamentale, vale a dire per Pag 37
ottenere il timore e la venerazione di fronte a se stessi. Poiché trovavano in se stessi tutti giudizi di valore rivolti contro di sé, dovevano abbattere ogni specie di sospetto e di opposizione contro «il filosofo in sé». Così fecero, da uomini di età terribili, con mezzi terribili: la crudeltà verso se stessi, la ingegnosa automacerazione – fu il principale strumento di questi eremiti riformatori del pensiero assetati di potenza (…) Per lungo tempo l’ideale ascetico è servito al filosofo come forma fenomenica, come presupposto esistenziale – costui dovette rappresentarlo, per poter essere filosofo, dovette credere in esso, per poterlo rappresentare. (…) Per lunghissimo tempo la filosofia non sarebbe stata per nulla possibile sulla terra senza un involucro e un rivestimento ascetico, senza un ascetico autofraintendimento. Per esprimermi in maniera palpabile e immediatamente evidente: il prete ascetico ha costituito, fino ai nostri tempi, la ripugnante e cupa forma larvale sotto la quale soltanto la filosofia ebbe diritto di vivere e si mosse tortuosamente strisciando . . . Ma si sono realmente mutate le cose? Il variopinto, pericoloso, alato insetto, quello «spirito» che questa larva racchiudeva in sé, è stato veramente liberato infine dal suo involucro e fatto erompere alla luce, grazie a un mondo più solatio, più caldo, più luminoso? V’è oggi già abbastanza fierezza, audacia, valentia, certezza di se, volontà dello spirito, volontà di responsabilità, libertà del volere, perché realmente ormai sulla terra, «il filosofo» – sia possibile? . . .
pag 116 par 14 (…) I malati sono il pericolo massimo per i sani; non dai più forti viene il danno per forti, bensì dai più deboli. Sappiamo noi questo? . . . Con un calcolo in grande, non è affatto la paura dinanzi all’uomo ciò di cui sarebbe lecito desiderare l’attenuazione: questa paura infatti costringe i forti a essere forti, e talora terribili – essa mantiene in piedi il tipo umano benriuscito. (…) E in realtà, molto è a tutto ciò predisposto. non ha soltanto un naso per fiutare, bensì anche occhi, orecchie, sente le tracce, quasi ovunque muova oggi anche soltanto un passo, di qualcosa come un’atmosfera da manicomio e da ospedale – parlo, ovviamente, delle aree culturali dell’uomo, di ogni specie d’ «Europa» che con l’andar del tempo esista sulla terra.
Gli infermicci sono il grande pericolo dell’uomo: non i malvagi, non «gli animali da preda». Gli sventurati sin dall’origine, i reietti, i fatti a pezzi – costoro, che sono i più deboli, sono quelli che più di chiunque altro minano la vita tra uomini, quelli che intossicano e mettono in questione nel modo più pericoloso la nostra fiducia nella vita, nell’ uomo, in noi stessi. Dove ci si potrebbe mai sottrarre a quello sguardo volto a ritroso dello sgorbio di natura, sguardo nel quale si tradisce il dialogo di un tale uomo con se stesso – quello sguardo che è un sospiro! «Potessi essere un altro qualsiasi !» cosi sospirano questi occhi: «Ma non c’è speranza. Sono quello che sono: come potrei liberarmi da me stesso? Eppure – sono sazio di me!» . . .
Su questo terreno di autodisprezzo, un vero e proprio pantano, cresce ogni malerba, ogni pianta velenosa e tutto è così piccolo così nascosto, così disonesto, cosi dolciastro. Qui brulicano i vermi dei sentimenti di vendetta e di rancore; qui l’ aria è fetida di cose segrete e inconfessabili; qui si va a continuamente tessendo la rete della più maligna congiura – la congiura dei sofferenti contro i benriusciti e i vittoriosi, qui l’aspetto stesso del vittorioso viene odiato: E quante menzogne per non voler riconoscere quest’odio come odio! Che sfoggio di parole grosse e atteggiamenti, quale arte di «onesta» diffamazione! Questi malriusciti: che nobile eloquenza sgorga dalle loro labbra! Quale zuccherosa, vischiosa, umile devozione galleggia nei loro occhi!
Che cosa vogliono propriamente? Per lo meno rappresentare la giustizia, l’amore, la saggezza, la superiorità – è questa l’ambizione di codesti «infimi», di codesti malati! E come rende abili una tale ambizione! Si ammiri, infatti, l’abilità da falsari, con cui viene qui imitato il conio della virtù, persino il tintinnio, il dorato tintinnio della virtù.
Ora hanno preso completamente in affitto la virtù; questi deboli e malati-incurabili, non v’è dubbio : «Noi soltanto siamo i buoni, i giusti – dicono costoro – noi soltanto siamo gli homines bonae voluntatis». Si aggirano tra noi come rimproveri viventi, e ammonizioni dirette a noi, – come se salute, corpo riuscito, forza, orgoglio, senso di potenza siano già in sé cose biasimevoli, per le quali si debba un giorno espiare, amaramente espiare: oh quanto sono pronti in fondo costoro a far espiare, quanta la loro sete di diventare carnefici.
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Pullulano tra loro i bramosi di vendetta travestiti da giudici, che hanno sempre in bocca la parola «giustizia» come bava avvelenata, sempre con una sorriso sulle labbra, sempre pronti a sputare su tutto quanto non ha l’aria scontenta e va di buon animo per sua strada..
Fra costoro non manca neppure quella nauseabonda genia di vanitosi, aborti di menzogna, che mirano a far da «anime belle» e a esibire semmai sul mercato, avviluppata in versi e in altri pannolini, la loro malconcia sensualità come «purità del cuore»: la genia degli onanisti morali e di quelli che «soddisfanno se stessi».
La volontà dei malati di rappresentare una qualsiasi forma di superiorità, il loro istinto per le vie traverse, che conducono a una tirannide sui sani – dove non è mai giunta questa volontà di potenza caratteristica proprio dei più deboli? Particolarmente la donna malata: nessuno la supera in raffinatezza di dominio, d’oppressione, di tirannide. A questo scopo la donna malata non risparmia niente di vivo, torna a dissotterrare le più sepolte cose (i bogo dicono: «La donna è una iena»).
Si getti uno sguardo nel retroscena di ogni famiglia, di ogni corporazione, di ogni comunità: ovunque la battaglia dei malati contro i sani – una battaglia silenziosa, per lo più con piccole polveri avvelenate, con punture d’ aghi, con insidiosa mimica-da-martiri-rassegnati, e talora anche con quel fariseismo-da-malati dall’accentuato gestire, che ama moltissimo la commedia della «nobile indignazione».
Sin entro i consacrati spazi della scienza vorrebbe farsi udire il roco latrato d’indignazione dei cani malati, la mordace mendacità e furia di tali «nobili» farisei (-ricordo ancora ai lettori che hanno orecchie l’apostolo della vendetta, Eugen Dühring che nella Germania attuale fa il più indecoroso e ripugnante abuso del bum-bum morale: Dühring, il primo fanfarone della morale che oggi esista, persino tra i suoi simili, gli antisemiti).
Sono tutti uomini del ressentiment, questi esseri fisiologicamente sciagurati e bacati, un’intera terrestre genia tremante di sotterranea vendetta, inesauribile, insaziabile nei suoi accessi contro i felici, come lo è nelle sue mascherate di vendetta, nei suoi pretesti di vendetta: quando potrebbero veramente giungere al loro ultimo più sottile e più sublime trionfo di vendetta? Indubbiamente, allorché riuscissero a trasferire la loro miseria, ogni miseria in generale, nella coscienza dei felici: così che questi cominciassero un giorno a vergognarsi della loro felicità e si dicessero forse tra loro «essere felici è un’infamia ! Esiste troppa miseria!» . . .
Ma non potrebbe esserci fraintendimento più grande e funesto di quello che si avrebbe ove mai i felici, i ben riusciti, i più possenti nel corpo e nell’anima, principiassero in questo modo a dubitare del loro dirittoalla gioia. Basta con questo «mondo alla rovescia»! Basta con questo ignominioso infrollirsi del sentimento!
Che i malati non facciano ammalare i sani – tale sarebbe il significato di un siffatto infrollimento-, dovrebbe pur essere la suprema prospettiva sulla terra – ma prima di tutto è compreso in ciò il fatto che i sani restino separati dai malati, preservati persino dalla vista dai malati, che non vengano a confondersi coi malati. O sarebbe forse loro compito essere infermieri o medici? . . .
Ma non potrebbero disconoscere e rinnegare il loro compito in un modo peggiore di questo – il superiore non deve degradarsi a strumento dell’inferiore, il pathos della distanza deve tener eternamente distinti anche i compiti!
Il loro (dei superiori, n.d.r.) diritto di esistere, la priorità della campana dalla piena risonanza su quella dissonante, incrinata, è invero un diritto mille volte più grande: essi soli sono i mallevadori dell’avvenire, essi soli sono in obbligo per l’avvenire dell’umanità.
Quel che essi possono, quel che essi devono, non è in facoltà di gente malata potere e dovere: ma affinché essi possano quel che essi soltanto devono, come potrebbero mai essere liberi di fare i medici, i consolatori, i «salvatori» dei malati? . . Aria buona, perciò ! Aria buona!
E alla larga comunque da tutti i manicomi e gli ospedali della cultura! E perciò buona compagnia, la nostra compagnia! Oppure, se dev’essere, solitudine ! Ma comunque alla larga dagli sgradevoli miasmi della putrescenza interiore e dalla occulta verminaia di gente malata! . . Affinché Pag 39
almeno un poco ancora ci sia dato difendere noi stessi, amici, dalle due maggiori pestilenze che proprio a noi possono essere riservate – dalla grande nausea per l’uomo! dalla grande compassione per l’uomo!
Nota 23 Ancora una volta si dilunga sulla descrizione dei malati, dei deboli, degli infermi: ancora una volta descrive con il più assoluto disprezzo…se stesso, il suo stato psicofisico nel suo progressivo aggravarsi verso la dissoluzione totale che arriverà da lì ad un anno.
“i sani restino separati dai malati”: è la premessa ideologica di ogni sorta di lager nazifasista.
E comunque non dimentica di rivendicare ai “vincenti”, alle “sane e forti”caste aristocratiche il diritto alla gioia, a vivere sulle spalle degli altri, delle loro disgrazie, della loro stessa vita. Il filo conduttore del discorso di N. non viene trascurato in nessuna pagina delle sue opere. E poi, ancora una volta, la furbizia dialettica da dodicenne frustrato: le caste dei vincenti hanno il diritto di difendersi dai subdoli e malvagi attacchi dei miserabili plebei, anzi un diritto mille volte più grande! E perché mai? E’ evidente! Perché essi soli sono i Mallevadori dell’Avvenire!Tutto chiaro allora…
Pag 119 par15 Si è compreso alla radice – ed esigo che proprio qui si scavi a fondo, si intenda a fondo – in che senso non possa essere assolutamente compito dei sani attendere ai malati, risanare malati, si sara’ al tempo stesso compresa anche un’ ulteriore necessità – la necessità di medici e infermieri che siano essi stessi malati: e si terrà ormai ben stretto con ambo le mani il significato del prete asceta.
Il prete asceta deve essere considerato da noi come il predestinato salvatore, pastore e difensore del gregge malato: solo così comprendiamo la sua enorme missione storica. Il dominio sui sofferenti è il suo regno, a esso lo rinvia il suo istinto. in esso possiede la sua vera arte, la sua maestria, la sua specie di felicità.
Deve essere lui stesso malato, deve essere fondamentalmente affine ai malati e ai tarati per comprenderli – per intendersi con loro; ma deve anche essere forte, ancor più padrone di sé che di altri, particolarmente indenne nella sua volontà di potenza, per poter essere per costoro appoggio, resistenza, puntello, costrizione, correttore, tiranno, dio.
Ha da difenderlo, questo suo gregge – ma contro chi? Contro i sani, non v’è dubbio, e anche contro l’invidia per i sani; deve essere naturale avversario, nonché. spregiatore, di ogni. rude, tempestosa, sfrenata, aspra, brutalmente rapace salute e possanza.
Il prete è la prima forma dell’animale più delicato, il quale disprezza molto più di quanto non odii. Non potrà fare a meno di muover guerra agli animali preda, una guerra di astuzia (dello «spirito ») più che di violenza, come va da se – talora sarà per giunta costretto a foggiare in sé quasi un nuovo tipo di bestia predatrice, per lo meno a significarlo– una nuova terribilità ferina, cui l’orso polare, l’elastico, freddo gattopardo in agguato e non in minor misura la volpe sembrano legati in una unità tanto fascinosa quanto terrifica.
Posto che la necessità lo esiga, avanzerà quindi tra le stesse altre specie animali rapaci, accigliato come un orso, maestoso, accorto, freddo, ingannevolmente superiore, come un araldo e un portavoce di misteriose potenze, deciso a seminare dove è possibile su questo terreno dolore, discordia, autocontraddizione, e, sicuro quant’ altri mai della arte propria, a diventar signore in ogni momento dei sofferenti.
(…) In realtà costui difende abbastanza bene il suo gregge malato, questo singolare pastore – lo difende altresì contro se medesimo, contro quella scelleratezza, malignità, malevolenza che persino nel gregge covano sotto la cenere, e contro tutto quanto è proprio, del resto, di ogni tossicomane e di ogni malato nei confronti l’uno dell’altro; lotta accortamente, spietatamente e segretamente con l’anarchia e con l’autodissoluzione sempre prossime a generarsi all’interno del gregge, nel quale si va continuamente vieppiù accumulando quella pericolosa sostanza deflagratrice ed esplosiva, il ressentiment.
Far esplodere questa sostanza deflagrante così che non mandi all’aria né il gregge né il suo Pag 40
pastore, questo è il suo caratteristico gioco di destrezza e anche la sua massima utilità: se si volesse compendiare, in una stringatissima formola, il valore dell’esistenza sacerdotale, si dovrebbe senz’altro dire: il prete è il modificatore di direzione del ressentiment(…)
Unicamente qui, secondo la mia supposizione, è da rinvenire la reale radice fisiologica del ressentiment, della vendetta e simili, in un desiderio dunque di ottundimento, del dolore per via passionale – (…) Ma il suo pastore, il prete asceta, dice a essa: «Bene così, la mia pecora! Qualcuno deve averne la colpa: ma sei tu stessa questo qualcuno, sei unicamente tu ad averne la colpa – sei unicamente tu ad avere la colpa di te stessa!»… Questo è abbastanza temerario, abbastanza falso: ma se non altro una cosa in tal modo è raggiunta, in tal modo, come si è detto, la direzione del ressentiment …è mutata.
Nota 24 Questo paragrafo è una splendida lezione di opportunismo politico-ideologico, una lezione di tattica politica che N. rivolge ai suoi committenti: Attenzione,disprezziamo coloro i quali praticano e predicano virtù ascetiche, ben lontane da quelle guerresche ed aggressive che devono caratterizzare la casta (al par 17 si farà sfuggire il termine CLASSE) dei veri SIGNORI VITTORIOSI, MA con una ECCEZIONE: quella dei preti, che hanno assunto e svolgono ancora un compito FONDAMENTALE – quello di deviare, di invertire, di mutare, la direzione del RANCORE, di incanalarlo in ben altra direzione che non sia l’odio di classe. La MASSIMA UTILITA’, dice. E allora, che ben venga l’ascetismo della Chiesa, che si dia ad essa uno spazio opportuno, tutto quello che serve per TENERE A BADA IL RANCORE DELLE PECORE, per far loro dimenticare la categoria della vendetta, RISERVATA AI POTENTI.
Pag 125 par 17 (…) un tale senso di inibizione può avere la più diversa origine: in quanto conseguenza, per esempio, di un incrocio di razze troppo estranee (oppure di classi – classi esprimono sempre anche differenze di origine di razza: l’europeo “dolore cosmico”, il “pessimismo” del XIX sec è essenzialmente il risultato di una assurdamente improvvisa promiscuità delle classi); oppure è dovuto ad una errata emigrazione – una razza incappata in un clima per il quale non basta la sua forza di adattamento (è il caso degli indiani in India); oppure la ripercussione di una senescenza e di una estenuazione della razza (il pessimismo parigino a partire da 1850); oppure di una dieta erronea (alcoolismo nel Medioevo; l’assurdità dei vegetarians),(…) o da una corruzione del sangue, malaria, sifilide e simili (la depressione tedesca dopo la guerra dei trenta anni, che appestò mezza Germania di brutte malattie e preparò il terreno per il servilismo tedesco). In un caso del genere si intraprende ogni volta il tentativo, in grandissimo stile, di una lotta contro il senso di scontento (…) in primo luogo si combatte codesto dominante scontento attraverso mezzi che degradano al suo infimo livello il senso della vita in generale.
Nota 25 usa concetti tanto famigerati quanto totalmente vuoti di senso, come quello di “razza” attribuendo ad essi assoluto valore esplicativo. La purezza razziale qua invocata da N. per risolvere i problemi dell’umanità è un fondamentale ingrediente per lo schiavismo del passato e del futuro. Servilismo tedesco: denunziarlo per preparare il terreno per la rinascita dell’orgoglio della Deutschland Ueber Alles.
In questo par. emerge con chiarezza un nucleo centrale della politica culturale di F.N.: il suo disprezzo feroce verso nichilismo, pessimismo, senso di “dolore cosmico” che tanto caratterizzarono il pensiero del XIX sec. (e dei successivi!). Atteggiamenti che indubbiamente evidenziavano, sia pur in forma confusa e contraddittoria, l’angoscia degli intellettuali di fronte ad una crisi di sistema sempre più intollerabilmente tragica. Bisogna subito ricorrere ad ogni possibile espediente per arginare tale intollerabile emorragia: non, certamente l’accelerazione della crisi per portare la società al suo sbocco storicamente inevitabile, il superamento della presente struttura di classe, ma il feroce ritorno al dominio di classi che, comunque generate, riportino la società ai secoli del dispotismo assoluto.
Per N. la via maestra è la rinascita del potere della bionda razza ariana predatrice, con a capo un Pag 41
adeguato super-boss, ma, come spesso chiarisce (anche in “L’Anticristo”), anche una classe emergente da altri cromosomi può andar bene, purché adempia con sufficiente malvagità e disprezzo delle classi inferiori, ai suoi supremi compiti.
Se possibile, più nessuna volontà, nessun desiderio; evitare tutto quanto crea passione… non amare; non odiare;(…) non arricchirsi(…) il tentativo di raggiungere in via di approssimazione per l’uomo, quello che per alcune specie animali è il letargo(…).
pag 130 par 18 (…) La forma più frequente, in cui la gioia viene in questa guisa prescritta come mezzo di cura, è la gioia del procurare gioia (come beneficare, far doni, alleviare, aiutare,(…) prescrivendo “amore per il prossimo”, il prete asceta prescrive in fondo una eccitazione dell’istinto più forte e maggiormente affermatorio di vita, anche se dosato con la massima cautela – la volontà di potenza.(…)
L’ istinto dei “signori” per nascita (vale a dire della solitaria specie predatrice d’uomo) è fondamentalmente irritato e inquietato dall’organizzazione. Sotto ogni oligarchia (…) sta sempre annidata la libidine di tirannide.
Nota 26 Come vedremo più avanti, N. disprezza ogni forma di stato, compreso quello oligarchico, da superare con lo Stato supremo, quello del tiranno, signore per nascita, splendido esemplare della solitaria specie predatrice d’ uomo. Questa forma di Stato è lo splendido sol dell’avvenire di F.N.
Pag 134 par 20 Ma mi sarà già inteso – e non è in questa, tutto sommato, evidentemente una ragione bastante per cui noi psicologi non ci si liberi oggidì di una certa diffidenza verso noi stessi…(…) anche noi siamo le vittime, la preda (…)
L’uomo che in qualche modo, in ogni caso fisiologicamente, pressapoco come una bestia che sia chiusa in gabbia, soffre di se stesso, (…), desideroso altresì di rimedi e di narcosi, (…) la “cagione” del suo soffrire, deve cercarla in se stesso, in una colpa, in un frammento di passato, deve comprendere la sua stessa sofferenza come una condizione di castigo …Pag 138, par 21 La nevrosi religiosa si manifesta come una forma del “mal caduco” (…) non saprei mettere in campo nessun’altra cosa che al pari di questo ideale abbia sacrificato in pari misura distruttiva la salute e la gagliardia di razza segnatamente agli Europei; senza la minima esagerazione esso può venir definito la vera fatalità nella storia sanitaria dell’uomo europeo (…)
Nota 27 Schopenhauer, del tutto abbandonato negli anni precedenti, ora gli torna comodo per ribadire ancora, indelebilmente, per contrapposizione, il concetto vincente di gagliardia di razza. L’uomo europeo soffre di se stesso, di un suo cupo dolore, desideroso di rimedi e di narcosi – cita evidentemente se stesso e si generalizza –, alla base della sofferenza, giura, c’è il senso di colpa instillato dalla nevrosi religiosa. Ma il rimedio c’è, e come: promuovere salute e gagliardia di razza, e il gioco è fatto.
pag 140, par 22 (…) non mi piace il “Nuovo Testamento”, già lo si intuisce (…) Il Vecchio Testamento, bene, è tutt’altra cosa: per il Vecchio Testamento, tutto il mio rispetto! In esso trovo grandi uomini, un paesaggio eroico, e qualcosa di estremamente raro sulla terra, l’incomparabile ingenuità del forte sentire: e ancora di più, trovo un popolo. (…)
Nota 28 Piroetta n. 4.586: Il vecchio testamento, una delle di più oscene opere presenti nella letteratura mondiale, intrisa di genocidi benedetti dal Signore, di stupri, di torture, a N. piace, e piace molto, come è ovvio. Fino al punto da fargli dimenticare che a pag 24, 25, e segg, aveva dipinto gli ebrei come una razza intrinsecamente perdente, malata di rancore velenoso senza possibilità di redenzione. Qua, a pag 140, vi trova un popolo.
Pag 141, par 23 L’ideale ascetico ha non soltanto guastato la salute e il gusto, ha guastato ancora Pag 42
una terza, una quarta, una quinta, una sesta cosa, – mi guarderò dal dire quante (quando mai arriverei a fine!) (…) la parola scienza è su codesto becco di strombettatori nulla più che un malcostume, un abuso, una sfrontatezza (…) essa è ancora passione, amore, ardore, sofferenza, non costituisce l’antitesi di quell’ideale ascetico,ma piuttosto la sua stessa forma più recente e più nobile.(…) La scienza come mezzo di autostordimento: sapete voi questo?…..Talvolta, con una parola senza malizia – chiunque abbia dimestichezza coi dotti lo sa – possiamo ferirla fino all’osso, indispettiamo contro di noi i nostri amici eruditi nel momento in cui si crede di onorarli, li facciamo uscire dai gangheri solo perché si è stati troppo grossolani da indovinare con chi avevamo propriamente a che fare, con sofferenti che non vogliono confessare a se stessi quel che essi sono, con gente intorpidita e inebetita che teme una cosa sola: acquistare coscienza . . .
Nota 29 Splendido esempio di cosa sia scienza per N., dedicata a chi sostiene che egli abbia acquisito nel suo percorso una profonda conoscenza delle problematiche scientifiche, e che su di esse abbia edificato una importante componente del suo pensiero: uomini di scienza come poveracci intorpiditi e inebetiti che non sono in grado di comprendere che, siccome lo dice il folgorante profeta, hanno il DOVERE di acquistare coscienza! Di che? Del fatto di avere perso la loro vita appresso a futilità (magari perchè sono state scoperte infinite volte negli eterni ritorni, non perdiamoci tempo, suvvia!!)
Questo è il fondatore della moderna epistemologia, non lo sapevate?
Ancora una volta la banalità delle chiacchiere di don Peppino il prete al bar dello Sport: si, vabbè, tira fuori tutti gli argomenti che credi, ma io continuerò a pregare il Signore che ti apra il cervello!…
pag 145 par 24 (…) Ancora sono ben lontani costoro dall’essere spiriti liberi: poiché ancora essi credono alla verità … Allorchè i crociati cristiani si scontrarono in Oriente con quell’ invincibile ordine di spiriti liberi par excellence i cui gradi infimi vivevano in una obbedienza quale non fu mai raggiunta da alcun ordine monastico, ricevettero per qualche via anche una indicazione su quel simbolo e su quella parola d’ordine intagliata su legno, che era riservata unicamente ai gradi sommi, come loro secretum: «Nulla è vero, tutto è permesso» . . . Orbene, questa era libertà dello spirito, in tal modo veniva congedata la fede nella stessa verità . Ha mai uno spirito libero europeo, cristiano, saputo smarrirsi in questa proposizione e nelle sue labirintiche conseguenze? Forse che conosce per esperienza il Minotauro di questo antro? . . . Ho i miei dubbi e, più ancora, mi risulta tutt’altro: – nulla è a questi incondizionati in una cosa, a questi cosiddetti «spiriti liberi» appunto più estraneo della libertà e della liberazione da ogni ceppo, intese in codesto senso; in ordine a nessun’altra cosa sono costoro appunto più saldamente legati, precisamente nella fede nella verità sono saldi e assoluti come nessun altro. Tutto ciò lo conosco forse troppo da vicino: quella veneranda moderazione filosofica, – cui obbliga una siffatta fede, quello stoicismo dell’intelletto che finisce per proibirsi il no altrettanto rigorosamente quanto il sì, (…)
Nota 30 Ci avviamo alla conclusione trionfale del pensiero N.ano, la sua carta vincente, il suo relativismo assoluto, la negazione del concetto di VERITA’, propagata da poveri ingenui scienziati vittime in blocco del pensiero ascetico. Qua siamo sulla vetta del pensiero libertario. Libertà assoluta dal concetto stesso di verità – la verità è rigorosamente inutile, la fede nella verità va CONGEDATA. I gradi infimi devono vivere non cercando verità, bensì in una OBBEDIENZA ASSOLUTA. I Gradisommi non sanno che farsene della verità, per loro tutto è permesso.
Il potente comanda, il plebeo deve dimostrare.
Questo è quello che N. testualmente DICE a sostanziale conclusione della sua opera. Decine di entusiasti esegeti imbarazzati, a questo punto sostengono: Il vero N. non è questo, è un meta-N. che ciascuno di essi escogita a piacimento e a seconda del soffiare del venticello delle mode filosofiche (e delle cattedre da conquistarsi), il vero N. si rinviene AL DI LA del testo, N. VOLEVA DIRE che il suo ideale era una libera società dove cento cento fiori fioriscono e cento scuole gareggiano. Costoro sono liberi di inventarsi il N. che credono, noi siamo liberi di ritenerli filosoficamente complici non solo della peggiore “filosofia” ma sopratutto dei peggiori e più
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efferati esperimenti sociali della storia umana.
Ma non è finita:
pag 149, par 25 Si considerino le età di un popolo in cui il dotto compaia in primo piano, sono tempi di stanchezza, spesso di crepuscolo, di decadenza – la forza sovrabbondante, la certezza di vita se ne sono partite. La preponderanza dei mandarini non significa mai nulla di buono: come l’ avvento della democrazia, degli arbitrati di pace al posto della guerra, dell’uguaglianza dei diritti delle donne e qualsiasi altro sintomo esistente della vita declinante. No! questa «moderna scienza» – aprite un po’ gli occhi voi! – è intanto la migliore alleata dell’ ideale ascetico, per il fatto appunto che è 1a più inconsapevole, la più involontaria, la più segreta e sotterranea! Fino a oggi hanno fatto uno stesso gioco, i «poveri di spirito» e gli oppositori scientifici di quell’ideale (ci si guardi, sia detto per inciso, dal pensare che questi costituiscano l’antitesi di quelli, qualcosa come i ricchi dello spirito – non lo sono affatto, li ho chiamati tisici dello spirito). Le famose vittorie di questi ultimi: indubbiamente sono vittorie – ma su che cosa? L’ideale ascetico non è stato per nulla debellato in essi, è stato invece reso più forte, cioè più inafferrabile, più spirituale, più capzioso grazie al fatto che da parte della scienza è stato sempre di nuovo sgretolato, demolito un muro, un bastione che si era addossato a quello e ne involgariva l’aspetto. Si pensa davvero che, per esempio, la sconfitta dell’astronomia teologica significhi una sconfitta di quell’ideale? … Forse che l’uomo è divenuto meno bisognoso di una soluzione trascendente del suo enigma esistenziale, in virtù del fatto che da allora quest’esistenza appare ancor più gratuita, messa da parte, superflua nell’ordine visibile delle cose? Non è forse, da Copernico in poi, in un inarrestabile progresso l’ autodiminuirsi dell’uomo, la sua volontà di farsi piccolo? La fede ahimè, nella sua dignità, unicità, insostituibilità nella scala gerarchica degli esseri è scomparsa – è divenuto animale, animale senza metafora, detrazione o riserva, lui che nella fede di una volta era quasi Dio (“figlio d’Iddio”,”Uomo-Dio”). . . Da Copemico in poi si direbbe che l’uomo sia finito su un piano inclinato – ormai va rotolando, sempre più rapidamente, lontano dal punto centrale, dove? nel nulla? Nel trivellante sentimento del « proprio nulla»? . . . Suvvia! sarebbe questo il retto cammino – per l’antico ideale? … Ogni scienza (e nient’ affatto la sola astronomia, sulla cui evidente e sconfortante efficacia Kant ha fatto la notevole confessione che «essa annulla la mia importanza» . . .), ogni scienza, tanto quella naturale, quanto la non naturale – chiamo così l’autocritica della conoscenza -, si propone oggi di dissuadere l’uomo dal rispetto sinora avuto per se stesso, come se questo altro non questo fosse stato che una stravagante presunzione; si potrebbe persino dire che essa ripone il suo proprio orgoglio, la sua propria austera forma di atarassia stoica nel conservare presso di sé questo faticosamente conquistato autodisprezzo dell’uomo come il suo estremo e più severo titolo di stima.
Nota 31 Sulla seconda parte: ancora una volta l’apertura di N. agli sviluppi del pensiero scientifico rifulge con vigore. Copernico ha scoperto la improponibilità della cosmologia cristiana? E’ la volontà dell’uomo di farsi piccolo, di fare scomparire la fede. Grande il Cardinale Bellarmino! La Fede, ahimè, per colpa della Scienza, è scomparsa! Grande l’ Inquisizione! Grande N., folgorante disgregatore di certezze! Grande N., folgorante ateo demolitore di ogni metafisica!
pag 157 par 28 (…) questo odio contro l’umano, più ancora contro il ferino, più ancora contro il corporeo, questa ripugnanza ai sensi, alla ragione stessa, il timore della felicità e della bellezza, questo desiderio di evadere da tutto ciò che è apparenza, trasmutamento, divenire, morte, desiderio, dal desiderare stesso – tutto ciò significa, si osi rendercene conto, una volontà del nulla, un’avversione alla vita, una rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia è e resta una volontà! . . . E per ripetere in conclusione quel che già dissi all’inizio: l’uomo preferisce ancora volere il nulla piuttosto che non volere . . .
Nota 32 Ma come, la scienza odia l’umanità allo stato ferino? Allora ha timore della felicità e della bellezza, non lo capite? Non ci credete? E’ perché volete il nulla, e se ve lo dice F.N. così è, e chi lo mette in dubbio, peste lo colga. Ancora una volta, a conclusione della fondamentale e
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definitiva opera”filosofica” di F.N., la ricchezza argomentativa del suo pensiero ci sgomenta per la sua vastità e profondità.
L’uomo di scienza ha sviluppato “la ripugnanza..alla ragione stessa,desiderio di evadere contro il divenire, la morte…”. Siamo alla demenza incurabile.
Nelle sue ultime opere, dell’88, non farà che ribadire come un disco rotto quanto abbiamo già visto:
“Bisogna essere integri fino alla durezza per sopportare nelle questioni spirituali la mia serietà e la mia passione. Si deve essere avvezzi alla vita sulle montagne” (L’ANTICRISTO, PREMESSA)(pensate su quali cime visse F.N.! L’autoesaltazione non riesce mai in N. a schivare il ridicolo!)
“Non soddisfazione, ma più potenza; non pace universale, ma guerra; non virtù, ma abilità (virtù nello stile rinascimentale, virtus, libera da convenzioni morali). I deboli e i malriusciti dovranno perire: primo principio della nostra filantropia. Inoltre li si dovrà aiutare a farlo. Che cosa è più dannoso di qualsiasi vizio? L’attiva pietà per tutti i deboli e i malriusciti…” (L’ANTICRISTO, II)
(Si ricordi che più volte N. è stato chiarissimo su questo punto: deboli e malriusciti sono anche i deboli e malriusciti psichicamente, quelli cioè che per lui non hanno forza e coraggio sufficienti per aderire alle sue granitiche strutture mentali, all’incontrastato regno del futuro superuomo. Sopprimere.)
“L ‘umanità non rappresenta, come si ritiene oggi, un’evoluzione verso il migliore, il più forte o il più elevato. Quella di «progresso» è soltanto un’idea moderna, vale a dire un’idea falsa. L’europeo di oggi vale assai meno dell’europeo del Rinascimento; evoluzione nel tempo non significa assolutamente evoluzione, progresso o rafforzamento. In un altro senso, esistono singoli casi di riuscita che fanno costantemente la loro comparsa nelle più svariate parti della Terra e nelle più diverse civiltà dove si manifesta un tipo superiore, qualche cosa che in relazione all’intera umanità costituisce una specie di superuomo. Queste occasioni fortuite di grande riuscita sono sempre state possibili, e forse lo saranno sempre. Persino intere generazioni, tribù e popoli possono rappresentare, sotto determinati aspetti, tale colpo fortunato”.(L’ANTICRISTO, IV).
Le sue posizioni a disposizione di ogni risma di briganti e assassini anche non ariani, purché seriamente determinati (astenersi perditempo).
LA FILOSOFIA DEL POSTMODERNO
Nell’ inverno del 1886-87, a Nizza, N. annota la celeberrima sentenza: Non ci sono fatti, solo interpretazioni”, all’interno di una serie di dissertazioni contro il positivismo, in quella fase uno dei suoi grandi nemici “filosofici”.
Dopo poche settimane riprende il filo del discorso della malvagità suprema, dell’ oltre-uomo, della assoluta, granitica certezza della ineluttabilità gioiosa della ferocia sanguinaria nella storia umana e del suo eterno ritorno.
In GdM, che, ricordiamo, è del luglio 1887, N. ribadisce una dottrina che si basa su certezze granitiche, e chiarisce bene cosa intenda per fine delle verità. Abbiamo ben visto a pag 145,come, illustrando il secretum della parola d’ordine intagliata su legno e destinata ai “gradi sommi” pronuncia la definitiva sentenza: “nulla è vero, tutto è permesso”. A chiarimento definitivo del fatto che nella sua visione dell’uomo nulla importa riguardo alla verità, il vincente, e solo lui, si comporterà sempre e solo secondo il suo primitivo istinto, e quella, e solo quella, sarà la verità autentica. Per i gradi infimi: obbedienza fanatica,totale ed assoluta.
Eppure sulla frasetta dell’ inverno ’86 si scatena un incredibile profluvio di interpretazioni, che condurranno ad un incredibile profluvio di teorie filosofiche.
Il sostrato comune di queste letture della frasetta di N., uno dei milioni di contraddittori pensieri che Pag 45
ronzano caoticamente nella sua psiche, sarebbe quello della scoperta del relativismo filosofico, della apertura, “per la prima volta nella storia nel pensiero umano”, di sterminati spazi di libertà interpretative e di chiusura dell’era delle verità rivelate.
In sostanza di quella che stata definita da tante parti “la filosofia del post moderno”.
Certo che cercare proprio nel pensiero di N., del più conseguente fautore della definitiva adesione ad una teoria storico-ideologica assolutista e ferocemente reazionaria, il fondamento di una filosofia “libertaria”, sbloccata da ogni legaccio o preconcetto, ha, mi si conceda, una sola possibile spiegazione: che questi illustri maestri le opere del 1887 e 88 (le opere della sintesi e del riepilogo) non le abbiano mai lette, e che abbiano ritenuto possibile che N. si sia dissociato dal profluvio di scritti degli anni precedenti al 1886, e che se ne sia dichiarato pentito. Oppure la divertente teoria del meta-N.
Certo è che (pag. 25 e segg.) chiunque si azzardi a dissentire dal pensiero unico di F.N. altro non è se non un uomo del ressentiment, invidioso e rancoroso, un malriuscito, che è bene sopprimere per glorificare la nobile stirpe vincente. Questa è autentica libertà (nietzsceana) di pensiero. Amen.
“Cosa sono lo spirito libero e la filosofia del mattino?. Lo spirito libero si identifica con il viandante, cioè con colui che grazie alla scienza riesce a emanciparsi dalle tenebre del passato, inaugurando una filosofia del mattino che si basa sulla concezione della vita come transitorietà e come libero esperimento senza certezze precostituite” (Wikip.). (Su quello che il N.adulto pensa della scienza si legga quello che dice da pag. 142 in avanti, e si chiuda il discorso). N. ritaglia a se stesso e solo a se stesso con questi aforismi il “diritto” di tagliare corto con le correnti di pensiero della sua epoca: certamente in N. si rinviene, in queste pagine, il richiamo alla più assoluta libertà di pensiero (ma sopratutto di azione), ma con un piccolo dettaglio: che tale libertà assoluta è riservata alla casta degli appartenenti alla aristocrazia della bionda razza ariana, che ne hanno assoluto bisogno per poter esprimere, nel loro seno, l’agognato super/oltre-uomo (ma sopratutto per essere prosciolta in via preliminare da ogni futura accusa di crimini contro l’umanità, e sul piano del giudizio storico per potere assolvere i loro antenati da quelli gravissimi del passato). Quanto alla sua “scienza”, veramente gaia, abbiamo già visto abbastanza.
Tutta la schematica suddivisione del pensiero di F.N. in “grandi periodi”, su cui si sono affannati centinaia di studiosi, soffre della evidente carenza di una lettura complessiva della sua opera, lettura che GdM ci aiuta molto a comprendere e sopratutto a compendiare.
Rintracciare ad es., seguendo E. Fink, una fase illuministica in N. proprio a partire da un’ opera come “Umano, troppo umano” compilata in forma di raccolta di aforismi, e proprio per questo aperta a qualsiasi arbitraria interpretazione, senza tener conto di quella autentica in GdM, appare quanto meno imprudente.
E inoltre, della “scienza”, entità che sta alla base del pensiero illuministico, N. aveva nozioni del tutto vaghe e mitologiche, frutto di letture affrettate e mal digerite. Si legga con attenzione con quanta sufficienza e con quanto disprezzo ne parla a pag 146 e segg. Sulla rottura dei rapporti con Wagner, considerata un segnale dell’avvicinamento di N. al pensiero illuministico, è ben documentato che fu proprio Wagner ad allontanarsi dall’ingombrante contiguità con un personaggio sempre più inqualificabile, persino nell’ambito di una cultura profondamente reazionaria come quella wagneriana. Le accuse di N. a Wagner di romanticismo decadente sono una reazione strumentale all’allontanamento da parte W, vissuto da N. come un intollerabile tradimento.
Alcuni biografi ritengono la permanenza di N. a Messina (1881) come un tentativo fallito di riavvicinamento a W. che in quel periodo proprio tra Messina e Palermo componeva il suo Parsifal.
Una nutrita schiera di agiografi imbarazzati hanno scelto una terza via, ancora più azzardata, quella di creare un N. “in trasparenza”, un N. da ricostruire al di la di quello che N dice, un meta-N “possibile”, che afferma “A” ma “vuol dire” “non-A”. Esempio standard M. Montinari di cui parleremo più avanti.
E ancora tra gli agiografi entusiasti ma imbarazzati quelli che debbono necessariamente arruolare N. nella loro impresa ideologica, riproporre il fascismo sotto mentite spoglie, dichiarandolo “superamento delle ideologie, superamento della destra e della sinistra”.
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Capofila di questa variante di esaltatori del Folgorante Profeta il sito Filosofico.net, dove si leggono centinaia di pagine sul Nostro, contenenti centinaia di pudiche reticenze e di inverecondi falsi. Anche di costoro parleremo più avanti.
LO STATO
Un giudizio pressochè corale sulla posizione di N. riguardo allo Stato e quello secondo cui egli sarebbe stato assolutamente contrario a ogni struttura sociale organizzata in forma di “Stato”, dando luogo e spazio quindi ad una corrente di pensiero anarchica senza cedimenti e fraintendimenti.
E certo alcune affermazioni come sempre assolute e definitive lo suggeriscono: «”Stato” si chiama il più freddo di tutti i mostri freddi (aller kalten Ungeheuer).È freddo anche nel mentire, e la menzogna che esce dalla sua bocca è questa: “Io, lo Stato, sono il popolo”. – Così parlò Zarathustra – (Del nuovo idolo)» .
«La cultura e lo Stato sono antagonisti» (Il crepuscolo degli idoli). E via discorrendo…
Quindi un N. anarchico, libertario, risolutamente contrario all’ingerenza della macchina statale nel libero sviluppo del pensiero… e chi più ne ha più ne metta.
Ancora una volta non si può dubitare che questa categoria di esegeti di N., di N. conosca solo alcuni aspetti, in realtà episodici e marginali rispetto al senso complessivo e profondo del suo pensiero di cui non è invece difficile cogliere la sua direttiva fondamentale.
Lo Stato che N. tanto disprezza, non è per nulla lo Stato tout court, è lo Stato come si andava caratterizzando nella seconda metà del XIX sec, lo stato della borghesia vincente e con aperture alla democrazia formale, e persino lo Stato delle monarchie costituzionali. Gli stati assolutistici del passato da lui definiti “Aristocratici” vengono assolti e considerati un modello, ma sono sopratutto gli stati “aristocratici” del futuro ad essere additati a modello definitivo dell’assetto sociale: stati fondati sulla più “fanatica obbedienza”, la vera “libertà dello spirito”, come abbiamo ben visto alle pag 145 e succ.
Se poi vogliamo definire “anarchica e libertaria” questa visione dello Stato, nessun problema, basta sostituire la lingua italiana con qualche idioma appositamente coniato.
ALTRI GIUDIZI e ALCUNI COMMENTI
GIUSEPPE TURCO LIVERI (…) “Si entra così nel cuore della dottrina politica e filosofica di N. elaborata, principalmente, – come cercheremo di dimostrare meglio più avanti – per difendere il potere e la ricchezza dei ceti dominanti del suo tempo. Qui ci basta far notare che, in generale, la sua intenzione è quella di raggiungere un tale scopo mediante la filosofia. Difatti egli trasforma le circostanze reali della storia in un mero prodotto, sempre uguale, dell’attività dei più alti rappresentanti di quella VDP; il potere di questi in un loro appannaggio sempiterno; lo sfruttamento della classe lavoratrice in un loro astorico diritto che discende da una loro «fondamentale funzione organica» (31-177,178); la Pag 47 subordinazione dei deboli proletari in una immutabile condizione di schiavi rispettosi di quel potere e di tale sfruttamento; la loro rivoluzione in una impossibilità ontologica, oppure -, che è lo stesso -, in una possibilità destinata ogni volta al fallimento; la lotta fra le classi in spontanea accettazione di ciascuna del proprio ruolo (dominante, ausiliario e subalterno) e dell’armonica gerarchia che ne consegue, in quanto astutamente presupposta; e dunque la paura dei forti di perdere il potere in sicumera o meglio in tracotanza; e infine il compromesso tra forti e deboli ossia tra dominanti e dominati in un accordo ontologico-” |
G. VATTIMO legge anch’egli nelle piroette di N. una sufficiente debolezza di pensiero, sufficiente ad arruolarlo tra i profetici precursori del “post-moderno” (?). Si interessa con leggerezza dell’aspetto politico-ideologico in N., relegandolo a marginale incidente di percorso e spera di correggerlo suggerendo la traduzione italiana di Über-mensch come “oltre-uomo”, sperando con questo escamotage di diluire il significato intollerabilmente reazionario dell’opera del baffuto schiavista. Poco da aggiungere. |
M. MONTINARI: parla in particolare della costituzione di un «extratesto», osservando che in molti casi le letture testimoniate negli scritti di Nietzsche sono lo spunto per delineare un contesto di interesse, che spesso risulta «più rilevante di ciò che si coglie nell’ambito puramente testuale», contribuendo oltretutto a una chiarificazione di quest’ultimo.
Quindi ciò che si coglie nell’ “ambito testuale”, in N. è una nuvoletta, un venticello, forse un’ombra. Il vero N. sta al di sopra, forse al di sotto, chissà, nel mondo delle possibilità, delle interpretazioni, dei pareri dei critici e degli esegeti. Va bene così. D’altronde è l’atteggiamento che più o meno esplicitamente si coglie in una infinita, variegata serie di esegeti del Nostro. Una breve riflessione: gli illustri accademici che hanno scoperto i vari meta-Nietzsche, che hanno chiarito che N., si, diceva tante orrende cose, ma che in realtà voleva dirne tante altre, che scriveva, si, che i malriusciti, gli ebrei e i socialisti andavano soppressi per creare una umanità migliore (con legittimo godimento dei biondi aguzzini), ma che in realtà voleva dire che li voleva invitare ad un pic nic sui praticelli fioriti dell’ Alta Engadina, questi illustri accademici hanno mai promosso una campagna di stampa, oggi una campagna sui social media, per convincere le frotte di neo-nietzsceani dalle teste rapate, i vari Freda, Ventura, Delle Chiaie, Carminati con i suoi amici della Magliana, che l’”ambito testuale” del loro super-uomo era falso, che avrebbero fatto bene a posare armi ed esplosivi, ed a lasciare vivere in pace le centinaia di uomini che hanno condannato a morte al fine di trasformare la “straordinaria filosofia” del “Folgorante Profeta del Superuomo” in prassi mortale?
E che se, ove se ne fossero accorti per tempo, avrebbero potuto convincere frotte di giovani interventisti prima e di giovani e vecchi hitleriani poi, che il loro idolo scherzava quando scriveva quelle oscenità che abbiamo evidenziato, e che non c’era nulla da mettere in atto, nessuna guerra da dichiarare, nessun forno da accendere, nessun Marzabotto, nessuna S,Anna di Stazzema.
Rimane invero poco comprensibile il giudizio di un vero maestro del pensiero quale L. GEYMONAT, il quale in un suo manuale riservato a giovani liceali, così si esprime:
“Il pensero di Nietzsche ha rappresentato senza dubbio una forma radicale di irrazionalismo vitalistico, forse la più radicale…nella storia della filosofia, certo una delle più affascinanti proprio per la paradossalità delle tesi ivi sostenute… Ma la mera denuncia non costituisce ancora l’indicazione di una soluzione…”
E invece una soluzione N la fornisce, e come! N. non si limita alla denuncia del progredire e del diffondesi di modelli di Stato fondati, sia pur solo nella forma, su criteri democratico-borghesi (ma sopratutto sul terrore del diffondersi di strutture statali fondate sul potere operaio, sul terrore di altre Pag 48
e più stabili Comuni di Parigi), N. fornisce la soluzione, fornisce in ogni pagina di questa sua opera fondamentale, la soluzione “finale” e “definitiva” del problema “struttura statale”. Lo stato può ben scomparire, almeno come veniva strutturato nella sua epoca, ma per essere sostituito dallo stato dell’orda barbarica, dalla volontà di esplicazione dell’ inflessibile e sanguinario potere della casta vincitrice, lo stato di Attila e di Vercingetorige.
Geymonat cita ancora N. : “l’uomo è cosa che dovrà essere oltrepassata, è un ponte e non una meta: egli deve chiamare se stesso beato per il suo meriggio e per la sua sera, onde gli è segnato il cammino a nuove aurore”. Ebbene, queste “nuove aurore” verso le quali l’uomo è solo un ponte”, non sono fatte intravvedere, non sono un futuro vago e lontano, sono invece la riproposizione di quelle lontane epoche che vengono comunemente riassunte nella categoria delle “invasioni barbariche”
Sempre Geymonat: “Ma la mera denunzia non costituisce ancora l’ indicazione di una soluzione. Essa può anzi costituire la fonte dei più gravi equivoci, quando susciti l’impressione – come purtroppo suscitano molte pagine di N. – che la soluzione vada cercata non attraverso un approfondito rigore di analisi ma con l’appello al semplice intuito, all’istinto e ai più oscuri moti dell’animo”.
Osservazione conclusiva indubbiamente valida, ma che appare ancora una volta carente: N. la soluzione la proclama a gran voce: è lo stato barbarico con a capo supremo un Fürer o un Duce (o un oltre/super-uomo), espressione della bionda razza vincente, come proclama a conclusione di quest’opera che altro non segna che la conclusione definitiva del suo pensiero.
Un lavoro imponente su N. è stato fatto da D. LOSURDO, che oltre a tanti altri interventi, ha dedicato al “ribelle aristocratico” un volume di quasi 1200 pagine.
Già la mole del lavoro indica la rilevanza straordinaria che egli attribuisce al pensiero di N.
Riportiamo una nota considerazione che riassume mirabilmente la posizione di Losurdo:
“La tragica grandezza del filosofo, il fascino e la straordinaria ricchezza di suggestioni di un autore capace di ripensare l’intera storia dell’ Occidente e di collocarsi ben al di la dell’attualità, sul terreno della “lunga durata”, tutto ciò emerge pienamente solo se, rinunziando a rimuovere o a trasfigurare in un innocente gioco di metafore le sue pagine più inquietanti o più ripugnanti, lo si osa guardare in faccia per quello che realmente è: il più grande pensatore tra i reazionari e il più grande reazionario tra i pensatori”.
Grande rispetto per le affermazioni di Losurdo, che si dichiara affascinato “dalla straordinaria ricchezza di suggestioni” che F.N. propone ai suoi lettori. Ma proprio per questo riteniamo, come diremo nelle conclusioni di questo lavoro, che N. sia da annoverare più tra gli esponenti di una innovativa forma letteraria, capace di suscitare in qualche lettore una straordinaria ricchezza di suggestioni, (magari una intollerabile disgusto in qualche altro), che tra gli esponenti di un innovativo sistema filosofico.
Non possiamo ora non riportare un brano di un commento al testo di Losurdo da parte di un movimento della destra sovranista e nazista, probabilmente diramazione di movimenti scandinavi (www.terradellasera.com): “come leggere Nietzsche? Nietzsche è la prospettiva di una nuova società olistica. Nel suo funzionamento la soppressione di milioni di individui di razza inferiore saranno solo un soffio. Infatti, quello che Losurdo non ha compreso ruota appunto intorno a questo fatto: prima di essere una questione di morale, la possibilità dell’annientamento di milioni di malriusciti è il frutto di un cambiamento di mentalità.”(…)
Le questioni che Nietzsche ha posto in ballo sono le questioni che la modernità non può accettare: prima fra tutte la possibilità di sopprimere le razze inferiori. Losurdo ha affrontato gli scritti di Nietzsche in modo da porre la questione del genocidio come conseguenza estrema del pensiero di Pag 49
Nietzsche. Come la catastrofe che attende alla fine, cioè alla realizzazione di quel pensiero.
Ma anche come la catastrofe che potrebbe attendere alla fine.
Il modo di Losurdo di affrontare gli scritti di Nietzsche dimostra l’imbarazzo del pensiero della modernità di fronte all’ipotesi di un pensiero del genere,cioè di un pensiero che deve sfociare, per sua natura, nell’ipotesi del genocidio.” e ancora: (…)”e poi, incontaminato,il biancore limpido di un nuovo inizio: il diritto di migliorare la vita a una parte dell’umanità e il diritto di togliere la vita a un’altra parte dell’umanità.”
Nessun commento.
Interessante perché racchiude uno dei principali equivoci (o peggio) in cui sono incappati i commentatori di N. è il parere di C. PREVE:“ È questa la chiave storica per affrontare il segreto di Nietzsche:
Non c’è nulla di più sbagliato e fuorviante del pensare che Nietzsche abbia incarnato la risposta antropologica borghese (o addirittura piccolo-borghese) alla soluzione antropologica di Marx definita proletaria. La soluzione antropologica che Nietzsche propone è invece consapevolmente post-borghese, perché dissolve tutti i precedenti “contenuti etici” della società borghese stessa. […] Quella di Nietzsche è un’ etica della valorizzazione onnilaterale dell’ individuo, e nello stesso tempo un’etica che non ha più come riferimento un’eticità, come quella di Hegel. Nietzsche non ha più come punto di riferimento un’eticità, perché la sua proclamazione della morte di Dio è anche una proclamazione del venir meno di qualunque eticità borghese o proletaria. La sua è un’etica dell’individuo, o meglio dello stadio maturo (troppo maturo) dell’individualità moderna.”
Ad una analisi attenta, appare del tutto evidente che CERTAMENTE N. NON “ha incarnato la risposta antropologica borghese o addirittura piccolo-borghese alla soluzione antropologica di Marx. Ma quella di N. NON è “una valorizzazione onnilaterale dell’individuo”, NON è “un’etica dell’individualità moderna”.
Decine di volte N. si pronuncia invece in modo non equivoco: la sua risposta e stata confezionata NON ad uso e consumo della borghesia (che pure ha trovato, nella sua componente più reazionaria, comodo ed utile appropriarsene golosamente), la sua è una etica assoluta di stampo aristocratico, che glorifica ad ogni passo le peggiori esperienze assolutistiche della storia umana, le assume come uniche ma ripetibili in una visione lungimirante, e questo è il compito che egli prende in carico per conto di una utenza ancora da individuare nei dettagli, ma di cui appaiono perfettamente evidenti i connotati politici. L’etica che gli propone NON è una risposta rivolta “all’ umanità”, ma SOLO ai suoi committenti. (Ricordiamo che del quarto libro del suo Zarathustra egli propose una edizione di un numero molto ridotto di copie, riservate alla ristrettissima cerchia dei suoi misteriosi estimatori).
Se questo aspetto non viene tenuto costantemente presente, la figura di F.N. continuerà ad essere fonte di fraintendimenti e di equivoci, di nodi, che, se analizziamo il ruolo profondo e devastante che quest’uomo ha avuto nella storia del XX (e del XXI !) secolo, vanno rigorosamente sciolti.
Ancora Preve: “Il grande nemico della democrazia Nietzsche offre a questa democrazia stessa ed al suo principio livellatore ed uguagliatore l’argomento filosofico ad essa più affine, la riduzione della natura della verità ad infinito gioco delle interpretazioni. Non esiste principio filosofico più adatto al mondo dell’invidia, del risentimento, del livellamento verso il basso, il mondo che Nietzsche afferma a parole di temere: qualunque idiota superficiale ed ignorante potrà dire, con piena legittimità filosofica, che la sua interpretazione non è né migliore né peggiore, ma solo diversa, di una diversità ingiudicabile, delle interpretazioni di Spinoza, Hegel o Marx. Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace, e per me la telenovela lacrimosa è meglio di Cervantes o di Stendhal. Il grande martellatore della verità non si accorge di dare grandi martellate sulle proprie dita. La negazione del carattere veritativo della conoscenza filosofica porta ad una vera e propria caricatura dell'”indifferenza” democratica, il carosello delle opinioni arbitrarie elevato a nobile gioco delle interpretazioni.”
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Certo, qua si rileva un paradosso evidente, ancora una delle clamorose autocontraddizioni di cui tanta critica filosofica, presa dalla frenetica glorificazione di F.N., non si avvede. Solo che a monte c’è una autocontraddizione ancora più clamorosa, che abbiamo evidenziato e che svilupperemo ancora più avanti: che per il Nostro delle infinite possibilità di interpretazioni del “fatto” solo la sua è legittima, le altre sono esclusive degli uomini dell’ esecrando ressentiment e vanno represse con ogni mezzo, tortura e genocidio in primo luogo!
F.VOLPI: “Povero Nietzsche! È stato l’unico filosofo a cui è toccato il singolare privilegio di essere considerato responsabile niente meno che di una guerra mondiale”.
E no, N. è corresponsabile (sul versante ideologico) di DUE guerre mondiali!
P. GORI (definisce N. “uno dei padri del pensiero contemporaneo”) …”vi sono altri luoghi in cui risulta evidente che egli stia svolgendo le proprie riflessioni sulla base di assunzioni e di risultati recuperati dagli scritti di personalità attive nell’ambito delle scienze naturali. E non è possibile, per giustificare questa difficoltà, fare appello alla tradizionale scusa – perché tale va considerata nel momento in cui la si elevi a prova argomentativa – secondo cui negli scritti di Nietzsche si troverebbe “tutto e il contrario di tutto”. Questa osservazione, che rende pienamente conto della molteplicità di spunti che il filosofo tedesco ha saputo presentare nel corso della sua produzione, deve infatti essere assunta all’interno di una prospettiva di indagine genetica, che sappia cioè ricostruire lo svolgimento di un pensiero variegato, ma non per questo incoerente.”
Evidentemente il concetto di “coerenza” deve ancora essere definito, se si può affermare che dire “auguro agli ebrei di acquisire il potere in Europa” e simultaneamente ”Gli Ebrei sono i responsabili dell’avvelenamento più grave che l’umanità abbia mai subito” sia “lo svolgimento di un pensiero variegato” invece che il galoppare di una inarrestabile follia (lucida però nel perseguire obbiettivi come l’esaltazione delle bionda razza dei conquistatori!). Qualcuno potrebbe osservare come “tutto + il contrario di tutto” abbia somma algebrica nulla, cioè sarebbe filosoficamente nulla. Non è così. Nella produzione di N., “tutto e il contrario di tutto” vale solo per tutto ciò che è vago richiamo a vaghe strutture filosofiche e a presunte strutture scientifiche. Ma la sua produzione centrale, quella politica, quella in difesa delle vecchie caste dei vincitori “in pericolo”, non oscilla mai, non ha “contrari” che ne annullino il totale. La somma algebrica del pensiero di F.N. non è nulla, è pesantemente negativa.
WP CHESTERTON :«Non riesco a pensare che lo sprezzo nietzscheano per la compassione sia semplicemente una questione di opinioni. Penso che (…) siano eresie tanto orribili che il loro trattamento non dev’essere tanto mentale quanto morale, sempre che non sia solo un caso clinico. Gli uomini non sono sempre morti per una malattia, né sono sempre condannati da una delusione; ma finché ne sono a contatto, ne sono distrutti.» «Come tutti sanno, Nietzsche predicò una dottrina, che egli stesso ed i suoi seguaci mostrano di considerare molto rivoluzionaria; egli sostenne che la comune morale altruistica era stata inventata da una classe di schiavi per impedire il sorgere dì tipi superiori capaci di combatterli e di soggiogarli. Orbene, i moderni, sia favorevoli che contrari, vi alludono sempre come se fosse un’idea nuova e del tutto inaudita. Si suppone con la massima calma ed insistenza che i grandi scrittori del passato, come per esempio Shakespeare, non lo sostennero perché non vi avevano mai pensato, perché l’idea non era passata loro per la mente. Ma rileggete l’ultimo atto del Riccardo Terzo di Shakespeare, e vi troverete, espresso in due versi, non solo tutto ciò che Nietzsche aveva da dire, ma con le sue stesse parole. Riccardo il Gobbo dice ai suoi nobili: “La coscienza non è che una parola usata dai codardi, al principio creata per mantenere i forti in soggezione”. Come ho detto, il fatto è chiaro. Shakespeare aveva pensato a Nietzsche ed alla morale del Super-Uomo, ma ne valutò l’esatta portata, e la collocò esattamente al suo posto: cioè nella bocca di un gobbo mezzo dissennato, che parla alla vigilia della sua disfatta. Questa collera contro i deboli è possibile soltanto in un uomo che sia morbosamente coraggioso, ma fondamentalmente malato; un uomo come Riccardo, un uomo come Nietzsche.»
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FILOSOFICO.NET L’estensore del sito ultranietzscheano GdM lo ha letto, e come. Ne parla diffusamente in un paginone fitto fitto, graficamente di stile genuinamente nietzscheano. E, confidando che non lo leggerà nessuno, pudicamente dimentica di riportare il cuore dei problemi del testo: la totale acquiescenza ai desideri sanguinari delle classi vincitrici. E questa strana “dimenticanza” gli permette di scrivere: “Chiunque pensi che il disprezzo di Nietzsche per la morale, per il cristianesimo, per la cultura, sia un elogio alla violenza, dimostra di non avere capito nulla. Nietzsche non è il filosofo del potere, ma il filosofo del divenire, ed è per questo che accanto al cristianesimo combatte il socialismo, l’anarchismo, il femminismo e il concetto stesso di ideologia. Ogni ideologia nasce da uno stato di malessere e di “risentimento” . Poco da commentare: invero chi sostiene che N. è il non-filosofo del ritorno al peggiore passato, ha capito perfettamente tutto, ma è chiaro che lo ha capito perfettamente anche l’ estensore di queste note, che essendo totalmente in sintonia con il folgorante filosofo, ne nasconde pudicamente, con invereconda reticenza, la impresentabile essenza.
E ne fa la caricatura allorquando, anch’egli con impudiche piroette, afferma: “la vita; le interpretazioni, infatti, sono migliori o peggiori non perché corrispondano di più o di meno ad una presunta verità, ma nella misura in cui sono più “potenti”, più convincenti, più capaci di muovere e di sostenere la vita (e questo spiega l’apprezzamento di Nietzsche per il movimento operaio)”. Cosa apprezza?? Dove apprezza?? Citi piuttosto le decine, le centinaia, di attacchi livorosi e offensivi verso i socialisti, verso i comunisti, verso “il gregge rancoroso” e la smetta con queste tentate truffe “filosofiche”.
E insiste “è preferibile usare quello di “oltreuomo”, come ha sottolineato Vattimo, proprio per distinguere la concezione nietzscheana dalle poco fedeli interpretazioni fascistoidi e dannunziane, anche se qualche spunto in tale direzione compare, qua e là, nelle stesse opere nietzscheane, soprattutto quando il folgorante profeta del superuomo si schiera contro le morali dei deboli; anche se, ad onor del vero, pur non approvando il socialismo come dottrina, in qualche aforisma guarda con simpatia al movimento operaio perché, a differenza della sonnolenta borghesia, è animato da una forza particolarmente vitalistica capace di creare nuovi valori”. Come ci si deve aspettare da un sito di adoratori di un folgorante profeta del pensiero-truffa, delle autocontraddizioni basate sulla pura falsificazione di fatti e di idee, pur di rendere digeribili davanti a frotte di sprovveduti ragazzotti le atrocità folli del folgorante psicotico, non si lesina la sua totale falsificazione. Abbiamo dimostrato ampiamente come l’ intero costrutto para-filosoficodi F.N. sia esattamente e puramente il manifesto più feroce e bestiale dei nazifascismi che negli anni, nei decenni, immediatamente successivi alla pubblicazione delle sue opere costituirono, senza alcun bisogno di re-interpretazioni, l’ideologia di cui si cibava la prassi più atroce. Che le giravolte para-filosofiche, le inutili e contorte prediche, servivano solo a N. per tentare di fornire un presunto substrato culturale a quello che altro non è che la banale profondità della sua psicosi sadica, fondamento del suo pensiero reazionario. E, come sopra, dove, come, quando, in quale aforisma, “guarda con simpatia al movimento operaio”???, che per migliaia di pagine bolla come la morale degli schiavi, il cupo risentimento degli inferiori??? E perché non cita, da “La volontà di potenza”: ”Ed ora tutto l’ ideale socialista: che altro é se non una balorda incomprensione di quell’ ideale morale cristiano ? … ci saranno sempre troppi possidenti perchè il socialismo possa significare altro che un attacco di malattia; e questi possidenti sono come un uomo di una fede: si deve possedere qualche cosa per essere qualche cosa. Ma questo é il più vecchio e il più sano di tutti gli istinti: io aggiungerei : si deve voler avere di più di quanto si ha , per diventare di più … Nella dottrina del socialismo si nasconde malvagiamente una volontà di negare la vita” Questa è simpatia per il movimento operaio??? Da soggetti che intendono ricostruire un fascismo mascherato da “fascio-comunismo”, un fascismo rosso-bruno, un fascismo che si chiama “interesse nazionale” e che predica l’ interclassismo delle corporazioni, la fedele collaborazione delle classi, non ci ci poteva Pag 52
aspettare altro che la più squallida falsificazione di tutto quello che si dice, si vede, si tocca. Inventano un Marx rigorosamente idealista, un Gramsci rigorosamente sodale di Gentile, un N. camuffato da Non-N. Annotare con attenzione. Cfr. http://www.redmilitant.eu/marx-e-gentile-inconciliabili-ed-incompatibili/
E ancora, ecco una riflessione sul N. alla pescarese:
“Per D’Annunzio devono esister alcune élite che hanno il diritto di affermare se stesse, in sprezzo delle comuni leggi del bene e del male. Queste élite al di sopra della massa devono spingere per una nuova politica dello Stato italiano, una politica di dominio sul mondo, verso nuovi destini imperiali, come quelli dell’antica Roma. La figura dannunziana del superuomo è, comunque, uno sviluppo di quella precedente dell’esteta, la ingloba e le conferisce una funzione diversa, nuova. Il culto della bellezza è essenziale per l’elevazione della stirpe, ma l’estetismo non è più solo rifiuto sdegnoso della società, si trasforma nello strumento di una volontà di dominio sulla realtà. D’Annunzio non si limita più a vagheggiare la bellezza in una dimensione ideale, ma si impegna per imporre, attraverso il culto della bellezza, il dominio di un’élite violenta e raffinata sulla realtà borghese meschina e vile. D’Annunzio applica, in un modo tutto personale, le idee di Nietzsche alla situazione politica italiana. Ne parla per la prima volta in un articolo, La bestia elettiva, del ’92, e presenta il filosofo di Zarathustra come il modello del “rivoluzionario aristocratico”, come il maestro di un “uomo libero, più forte delle cose, convinto che la personalità superi in valore tutti gli attributi accessori”,”forza che si governa, libertà che si afferma”. Il suo è un fraintendimento, una volgarizzazione fastosa ma povera di vigore speculativo. Ciò che il D’Annunzio scopre in Nietzsche è una mitologia dell’istinto, un repertorio di gesti e di convinzioni che permettono al dandy di trasformarsi in superuomo e fanno presa immediatamente in un mondo di democrazia fragile e contrastata, soprattutto quando al cronista del “Mattino” e della “Tribuna” si sostituisce lo scrittore insidioso del Trionfo della Morte (“Noi tendiamo l’orecchio alla voce del magnanimo Zarathustra, o Cenobiarca, e prepariamo nell’arte con sicura fede l’avvento dell’Uebermensch, del Superuomo”)…..” Patetico, vano tentativo di smarcarsi dall’imbarazzante e totale adesione dei nazifascismi di ogni sorta al pensiero del Folgorante Filosofo. Ma questo è.
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LA LEZIONE DI MAURIZIO FERRARIS
Di grande interesse perché permette di mettere a fuoco il discorso che abbiamo intrapreso è la stimolante lezione di Maurizio Ferraris in “Zettel presenta”, RAI Scuola. Occorre tener presente che si tratta di una lezione preparata per un pubblico prevalentemente giovanile, quindi destinata ad avere un ruolo importante nel processo formativo.
Nel breve corso dei 90 minuti della lezione Ferraris tratteggia non solo la contraddittoria
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personalità di F.N. ma anche la variegata gamma dei giudizi che hanno caratterizzato la critica filosofica accademica nei suoi confronti.
Pur nei limiti di una trattazione divulgativa, didattica, emergono tutte le contraddizioni dell’ atteggiamento “ufficiale” della cultura mondiale sul personaggio N. e sulle sue (apparenti) contraddizioni. Tenteremo di fissarne i punti centrali, sia pur con tutti i limiti di una riduzione a schema:
a) F.N. è unanimemente considerato uno dei massimi filosofi del XIX secolo se non il massimo, e per alcuni il massimo di tutti i tempi.
b) Incomprensibilmente, per una bizzarria del caso, il pensiero di N, pressoché sconosciuto fino alla sua morte (o almeno fino alla sua morte cerebrale), nel giro di pochi anni è assurto al ruolo di pensiero-guida in ogni campo della cultura.
c) N. fu un personaggio solitario ed errabondo che, col solo apporto economico di un vitalizio di 3000 franchi svizzeri/anno visse i 13 anni cruciali della sua vita vagabondando per i più rinomati centri turistici di Svizzera, Italia e Francia, accollandosi inoltre le spese editoriali per alcune sue opere invendibili.
d) N. fu i primo pensatore ad evidenziare la crisi delle certezze che caratterizzerà il XX sec.
e) Negli anni della produzione letteraria e filosofica di N. inizia il periodo della colonizzazione europea negli altri continenti.
f) N. predicava la morte di Dio.
g) Già in “Ecce homo” N. aveva “il vento della follia che gli scorreva sulla faccia”
h) N. si presentava come proveniente da una famiglia di nobiluomini polacchi, senza sangue tedesco, e che il il suo cognome significava in polacco “lo sterminatore”.
i) N. fu un uomo smisurato ed autodistruttivo, che si esponeva a tutti gli equivoci e a tutte le interpretazioni possibili e di cui non ci sarà mai una interpretazione definitiva.
l) Il suo percorso mentale inizia con la valorizzazione dei riti dionisiaci nella cultura greca, riti tribali in cui viene sgozzato e squartato un capro (espiatorio), rito magmatico e totalmente irrazionale. E il nostro destino futuro sarà quello di Dioniso, a sua volta squartato. Definisce “apollineo” il pensiero più noto del mondo greco, quello logico-razionalizzante, e lo disprezza.
m) Nel 1881 N. scrive la sua prima opera come filosofo, “L’eterno ritorno” riesumando antiche teorie pagane orientali: Visto che il mondo è composto da un numero finito e fisso di elementi che non si creano e non si distruggono, tutto DEVE ripetersi perché prima o poi gli elementi si ricombineranno allo stesso modo. Pertanto visto che il futuro è già scritto, la vita non ha alcuno scopo. Nell’ 82 scrive “La gaia scienza”, nella quale sostiene la morte di Dio e quindi la mancanza di alcun fine nella vita. Ma: il filosofo è colui che crea nuovi valori.
n) Sopportare il destino contro il quale è impossibile lottare (perché sempre così sarà)
o) Da “Zarathustra” : Il superuomo ci insegna che l’uomo è qualcosa che deve essere superato.
p) N. credeva all’evoluzione della specie, da ciò la necessità di passare dall’uomo al superuomo. Oppure retrocedere al livello della bestia?
q) Il superuomo ha come contraltare il sotto-uomo.
r) N. non fu mai nazista perchè la sua morte cerebrale avvenne lo stesso anno della nascita di Hitler, pertanto non ha mai potuto influenzare direttamente Hitler, ma molto del suo pensiero riflette quei concetti di violenza che saranno successivamente utilizzati dal nazismo.
s) N. nel corso dei 4 anni in cui si è posto come filosofo (’84 – ’88) ha cambiato tutto il corso
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successivo della filosofia, nel bene e nel male.
u) La vita non va giudicata sulla base di valori precostituiti ma sulla base di se stessa: essa è fatta di prevaricazione e di volontà di espansione fino alla morte di altre vite. L’energia è una quantità fissa, si trasforma da una forma ad un’altra sulla spinta della volontà di potenza. L’azione non può tener conto di moralità o di principi.
v) Tutto ciò ha costituito il fondamento filosofico del nazismo. E’ dunque il messaggio negativo che N. ci lascia.
z) Ci lascia però anche un messaggio positivo: la ricerca della emancipazione dai vecchi valori e la loro demolizione nel quadro di una totale libertà del pensiero.
Tentiamo di esaminare i singoli problemi, partendo dalla osservazione, grave, che nella ricostruzione di Ferraris, GdM non c’è. GdM che è l’opera filosofica per eccellenza di N., a detta di N. stesso, e quindi di fonte alquanto autorevole.
Il raffronto delle continue contraddizioni e piroette di N. nel suo excursus se si prescinde dalle posizioni assunte in GdM perde gran parte del suo significato.
Un individuo che nel corso della giornata contraddice 24 volte le sue affermazioni, viene definito: a) se si ratta di un soggetto di scarsa cultura, un povero sciocco; b) se si tratta di un soggetto che ha accumulato un vasto bagaglio di fonti culturali, uno sul cui viso alita il vento della follia (caso N, appunto).
Le sue posizioni possono viste come un caotico fardello di affermazioni apodittiche ed autocontraddittorie, senza il minimo nesso logico (punto i). Da questo caos ciascun esegeta ha creduto di potere estrapolare questa o quella linea di pensiero, che fungesse da puntello di eccellenza alla propria. Ma non dimentichiamo che il seme di N. ha immediatamente germogliato in Heidegger che con la sua mai ritrattata adesione al nazismo ha fornito al super-Hitler ed ai suoi postumi adoratori una eccellente pillola ricostituente. Anche Heidegger appartiene al gruppo di studiosi-adoratori del Profeta che non intendono rendersi conto dell’aspetto prioritario del pensiero N.-eano, quello politico, e pretendono di leggervi fantasiose e vaghe suggestioni “post-moderne”, termine tanto generico quanto inconcludente.
Una attenta analisi di GdM getta invece una luce complessiva sull’ excursus “filosofico” di F.N. e ne rileva una intrinseca coerenza di fondo ancorchè basata, comunque, come visto, su fondamenta totalmente incongrue e stumentali.
Sin dal suo esordio come filologo, N. esamina il percorso della tragedia greca schierandosi senza remore dalla parte delle componenti ancestrali, irrazionali e sanguinarie della cultura greca, quella componente che veniva via via erosa, con grandi difficoltà, dalla componente logico-razionale degli scienziati filosofi materialisti. Scelta di campo, quella di schierarsi a fianco della cultura primitiva e residuale nel corso dello sviluppo umano, che lo presenterà come campione del sostegno politico-ideologico delle componenti più aggressive e prevaricatrici della storia della società umana. Non è un caso (punto h) la sua scelta di presentarsi come discendente di una nobile famiglia di “sterminatori”. Ovviamente tale atteggiamento, in controcorrente rispetto alle correnti culturali della sua epoca, non poteva che trovare apprezzamento negli ambienti aristocratici e guerrafondai scossi dall’ emergere prepotente di nuove classi sociali, dalla rivoluzione francese, dalla comune di Parigi, da teorie minacciose come il socialismo nelle sue varie sfaccettature. In quei circoli politici che avevano ben sperimentato gli enormi vantaggi della violenta espropriazione armata di popoli più deboli con la colonizzazione delle Americhe, di parte dell’Asia, dell’Oceania, dell’Africa (v. punto e!) e che si apprestavano a completare l’opera di colonizzazione mondiale.
Su questo “Harter Kern” del percorso nietzscheano non notiamo una sola incrinatura, una sola perplessità. Il percorso della follia è stato perfettamente rettilineo, non ha avuto le contorsioni che Pag 55
osserviamo in tutti i campi “ancillari” del suo pensiero e della sua opera.
Non conosciamo abbastanza i legami politico-ideologici degli amici di N. Sappiamo che Wagner, ed, evidentemente, il retroterra dei suoi importanti sostenitori, ritennero eccessivo o troppo contorto e contraddittorio il suo percorso argomentativo ed ad un certo punto (fine anni ’70) lo abbandonarono, certamente non tutti, (ad es. non la moglie Cosima) ma che comunque continuò ad avere forti sostenitori occulti, come si fa sfuggire nella lettera del 1887 che abbiamo riportato, che gli permetteranno una esistenza, sul piano delle disponibilità materiali, indubbiamente invidiabile.
Una volta compiuta la scelta di campo giovanile a sostegno delle più feroci e sanguinarie componenti dell’imperialismo di ogni epoca, N. mostra su questo che è il fulcro della sua attività, una coerenza senza incrinature, certamente rafforzata dalla incontenibile follia che incombeva su di lui.
Sviluppa il concetto di crisi delle certezze (punto d) per potere avere campo libero nel ritorno al pensiero più primitivo, quello del diritto all’omicidio, ed allo sterminio finalizzati alla appropriazione dei beni altrui, leit motiv intrinseco ad ogni sua opera, estrinsecato poi senza pudore in quella conclusiva, in GdM.
Le incrinature e le contraddizioni evidenti e clamorose nel percorso del suo pensiero non riguardano minimamente la incrollabile fede nell’avvento al comando dell’umanità dell’ uomo barbaro e sanguinario, riguardano invece gli incredibili espedienti che egli deve escogitare per difendere ad ogni costo una posizione ampiamente indifendibile. Si aggrappa così a posizioni vagamente collegate all’ illuminismo, poi salta sul carro dell’ irrazionalismo schopenhaueriano, si pone come difensore della più assoluta libertà di pensiero ed esprime di li a poco la sua totale adesione a regimi follemente fanatici in cui i sudditi non debbono avere idee se non quella della totale adesione a quelle del capo (v. “Gli Assassini”, la stella polare del suo pensiero politico, pag.145).
Si dichiara sdegnato delle posizioni degli antisemiti salvo sviluppare nelle stesse settimane il più feroce attacco agli ebrei rei di avere avvelenato il sangue della intera società umana (pag 24 e segg).
La libertà di pensiero rivendicata da N. è in realtà riservata a se stesso, è uno degli escamotage che dovrebbero puntellare il delirio delle sue posizioni politiche. Gli sprovveduti sostenitori del N. libertario hanno per un attimo riflettuto sulla libertà di pensiero della società in pugno all’ oltre/super uomo?
Ripesca la teoria mistica dell’eterno ritorno, utilizzata nelle religioni orientali per asservire ancora di più i sudditi-fedeli, tentando di attribuirle una buffa “spiegazione” fisica, quella secondo la quale l’attuale conformazione delle particelle costituenti in numero finito l’universo dovrà necessariamente (?) ripresentarsi, prima o poi. Trascura il fatto che le possibili combinazioni delle particelle sono infinite e che non vi alcun motivo per cui debbano in futuro ri-aggregregarsi allo stesso modo (m). Ma, se pur così fosse, se non avrebbe senso alcuna attività per un futuro diverso (n) e magari migliore, perchè mai impegnarsi per fare emergere un superuomo, per una società radicalmente nuova (o)?
N. affermava di credere alla evoluzione della specie, che avrebbe portato al superuomo, pena il ritorno alla stato di bestia (p). Ma più volte in GdM afferma senza remore che proprio è l’essenza di bestia sanguinaria dell’uomo a giustificare le pratiche genocide delle nobili e aristocratiche razze conquistatrici (pag 30-35), massima espressione della (loro) libertà.
E siccome il superuomo ha come contraltare il sotto-uomo, ecco pronte e giustificate tutte le pratiche schiavistiche (sempre in nome della libertà di pensiero!) (q), nonché le pratiche di soppressione dei malnati e dei malriusciti (pag 32di GdM), inclusi quelli che non riescono a capire la profonda nobiltà della classe che sostiene il potere del superuomo, e che pertanto vanno adeguatamente soppressi, per il bene dell’umanità (ancora in nome della libertà di pensiero glorificata dai filosofi glorificatori di N., (a), (s)). Pratica che vale, nel suo pensiero e poi nella
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pratica successiva, sopratutto per chi al superuomo si oppone, cioè per i sotto-uomini (q).
(r) Certo che N. non poté fare parte di qualcosa che solo in seguito avrebbe assunto il nome di Nazismo, ma non vi è dubbio alcuno che abbia preparato il menù del tossico desco fumante al quale Hitler e la sua corte di nobili banchieri ed industriali si assisero pochi anni dopo la sua morte, come dimostra il caso, tra i tanti altri, del “poeta” D’Annunzio e di Benito Mussolini. E nella persona del suo fedele allievo Heidegger entrò a gonfie vele nelle università tedesche, a perenne gloria del novello Über-mensch. Anzi, divenne, nel ’33, rettore della prestigiosa università di Friburgo.
(z) La emancipazione dai vecchi valori? Certo, per tornare a quelli ancora precedenti! Parola del rivoluzionario aristocratico!
b) N., come appare dunque evidente, ha composto le sue opere per una ristrettissima classe di committenti che avevano necessità di un cantore delle loro gesta, passate presenti e future. Certo è che strati sempre più vasti di reazionari e folli guerrafondai si buttarono ghiottamente, non appena pronte le traduzioni nelle varie lingue, sui lavori di F.N.
Certo che nessun divinatore poteva presagire che le opere del 1889 fossero le ultime. Il fin troppo noto G.D’Annunzio lo cita in un articolo (La bestia elettiva) come “il rivoluzionario aristocratico” già nel 1892, e poi sempre più spesso fino alla famosa ode del 1902 e via via nella complessiva costruzione della categoria del superomismo in salsa pescarese. Mussolini cita ancora, (dopo il peana del 1905), N. nel 1908: «La morale degli schiavi finisce per avvelenare la gioia del tramonto alle vecchie caste e i deboli trionfano e i pallidi giudei sfasciano Roma» (su “il pensiero romagnolo”), superomismo in salsa romagnola. E via discorrendo….
Dobbiamo ammettere che esistono fasi storiche particolarmente favorevoli al successo di ideologie apertamente reazionarie, in particolare quelle di acute e profonde crisi economiche, e gli anni a cavallo dei due secoli indubbiamente lo furono. In quegli anni, ad una parte determinante della classe che deteneva il potere nelle varie aree del mondo, l’ideologia politica di F.N., cadeva come il cacio sui maccheroni. Cosa si poteva desiderare di meglio che una teoria, per quanto rozza e truffaldina (ma approssimativamente truccata da profondo ed innovatore sforzo rivoluzionario) che appoggiasse la perpetuazione delle loro imprese oscene di espansione sanguinaria? Il punto b) dunque, se l’opera di N. viene adeguatamente contestualizzata, perde il suo alone di mistero.
f) N. predicava la morte di Dio? N. si rende conto che l’ipostasi assurda della presenza di Dio andava rivelando da secoli sempre più la sua inconsistenza nel pensiero e nella prassi di studiosi del più alto profilo, ed anche, ahimè, dell’ uomo comune. Si sente quindi in dovere di correre ai ripari per offrire alle folle che osannavano le divinità costituite, miti alternativi, non meno incongruenti, i suoi superuomini, che da li a qualche anno saranno materialmente incarnati dai tanti Hitler che popoleranno il mondo. D’Annunzio non riesce ad incarnarlo, malgrado i suoi sforzi, ma si accontenta di fare da puntello al suo sodale Benito. La metafisica alternativa che si sostanzia in tragico materiale umano. Il vero capolavoro di F.N.
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IN CONCLUSIONE :
Lo studio accurato di questo testo, summa, come abbiamo avuto modo di evidenziare, del pensiero maturo di F.N., permette di scoprire tutto un mondo insospettato.
In primo luogo la pochezza filosofica di quest’uomo, sconvolto da insanabili contraddizioni di origine patologica ma certamente anche ambientale, logica e culturale.
E’ certo controverso cosa si debba intendere per “filosofia”, e non intendiamo minimamente scendere su questo terreno, ci pare però possibile definire i termini di ciò che filosofia NON è.
E non è filosofia a nostro avviso un pensiero che NON parta da un punto A (il pensiero di un altro pensatore, o di una corrente, o dello stesso autore) e NON pervenga poi attraverso un determinato percorso argomentativo, ad un punto B, diverso da A.
Il pensiero di N. invece si costituisce come piattaforma immobile della umana perenne malvagità e della inadeguatezza di gregge dell’uomo, delle sue visionarie allucinate immagini di ferocia e di godimento sadico, e lì resta. Tutta la sua opera della maturità consiste nel costruire puntelli sempre più improbabili, costantemente fondati sul profondo disprezzo dell’ avversario, al sistema che via via aveva eretto nelle tante opere di natura aforistica e/o romanzesca.
N. costruisce dapprima una parvenza di pensiero filosofico a partire dall’adesione critica al pensiero di Schopenauer ma ben presto divaga in altre varie e contraddittorie direzioni rinnegando il suo ex-maestro e ponendosi al centro di un suo proprio allucinato mondo.
Lascia estremamente perplessi la collocazione universalmente accettata di N. all’interno delle correnti irrazionalistiche della sua epoca.
In realtà N. TENTA costantemente di collocarsi all’interno di un quadro razionalista: i suoi costrutti TENTANO di seguire lo schema logico ”assioma/i – dimostrazione – tesi acquisita”.
L’ unica tesida dimostrare, è ben chiara nel suo delirio: Il diritto di chiunque nasca più forte, di opprimere i più deboli godendo sadicamente delle loro sofferenze.
Lo schema logico dimostrativo è congruo alla complessità del compito: pagine e pagine di arrovellamenti e contorsioni magari interessanti sul piano letterario (per i lettori i grado di reggerli) ma che seguono una loro, aberrante, logica.
Ma è il piano di fondo, gli assiomi strutturali, che mostra la strumentalità paranoide di tutto il costrutto nietzscheano. Essi possono venire scissi in vari filoni, che trovano poi una loro sostanziale unità di fondo:
a) la immobile natura di belva sanguinaria della specie umana. N. non riesce a vedere lo iato profondo tra la “bestia” e l’ “uomo moderno”, dimostra di non conoscere nulla della storia evolutiva della specie “Homo”, dalle origini, via via per rami complessi, fino ad Homo Sapiens. Eppure nella seconda metà del XIX sec., almeno dal 1856, gli studi di paleoantropologia umana appassionavano studiosi dei più vari campi. Si limita ad utilizzare strumentalmente gli scritti di Darwin stravolgendone il senso per sostenere che la selezione naturale avviene tramite la soppressione dei più deboli, o la loro riduzione in schiavitù, finalizzata al benessere dei ben-riusciti.
b) la definitiva statuizione delle categorie etiche in una epoca mitologica: gli immensi periodi di tempo dell’ “«eticità del costume», i quali precedono la “storia universale”. (pag 107 ),
“«L’uomo è cattivo», così parlano con mio conforto i più saggi” (Zarath, IV, dell’uomo superiore)(quali saggi, dove, quando?).
c) la esistenza, a fondamento di ogni umana esperienza storica, di razze superiori, aventi il diritto naturale, ma anche il dovere, (per la salvezza del genere umano) di assumere con ogni mezzo il potere assoluto, (v. pag 131).
E qua incappa nell’ errore più marchiano, all’interno del suo tentativo di fornire giustificazioni razionali al suo pensiero: la coincidenza sostanziale di assioma e tesi, il totale fallimento del tentativo di dare al suo argomentare una struttura in qualche modo formalizzata.
La sua proclamata “guerra alla metafisica”, in cui tanti estimatori di N. hanno riscontrato l’ “inizio della modernità”, si risolve nella adesione più metafisica e fideistica ad un credo folle nei confronti di una classe di soggetti per i quali a buona ragione potrebbe essere usato il termine “criminali”,
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nuovi folli dei, ai quali tutto è permesso, ed a favore dei quali spende i suoi fiumi di inchiostro nel corso di una intera vita.
In buona sostanza N. risulta essere non un irrazionalista come viene comunemente dipinto nei manuali, in compagnia di Kirkegaard e di Schopenhauer, bensì, analizzando a fondo la struttura di GdM, un razionalista abortito.
N. ha disquisito nel suo excursus su tutto, di tutto, contro tutto, ma non perdiamo mai di vista il nocciolo duro del suo pensiero: il rovesciamento della morale, esplicito “harter Kern”di GdM, nel tentativo di inversione del giudizio (morale ma sopratutto giuridico e politico) nella fondamentale prospettiva di un uso “politico” della sua opera. Su quello nessun dietro-front, nessuna piroetta, mai.
A ben riflettere, questa incursione in un territorio altamente inquinato come il pensiero nietzscheano presenta un aspetto molto proficuo, anzi due: il primo è un prezioso insegnamento di come si possa spacciare, con l’arma dei trucchi semantici, dei paralogismi e delle esibizioni di vuoti nozionismi, per “cultura rivoluzionaria” e per “filosofia d’avanguardia”, quella che è una vecchia, arrugginita, ma ancora devastante, arma ideologica e politica.
Il secondo riguarda la capacità, una volta conosciutola a fondo, di rovesciare come un guanto la ideologia di F.N.: dopo un “ripasso”, una sintesi, delle pagine più bestiali della storia di Homo Sapiens, trarne l’ unica conclusione conseguente: l’esigenza, NON di una regressione allo stato ferino, ma, al contrario, di uno sviluppo dialettico verso la crescita del suo aspetto innovativo, quello delle capacità logico-cognitive, che comportano necessariamente lo sviluppo dell’aspetto della socialità e della coesione interpersonale, aspetto storicamente impersonato oggi dalla classe dei privi di potere decisionale.
In estrema sintesi, GdM, pur essendo un’opera scritta espressamente da F.N. per dare valore filosofico ai suoi infiniti scritti precedenti, non riesce con ogni evidenza minimamente nei suoi intenti.
I suoi scritti ben possono a nostro avviso avere degna collocazione tra le bizzarrie letterarie del XIX secolo, ma il capitolo “Nietzsche” dovrebbe venire trasferito in via definitiva dai testi di “filosofia” a quelli di “letteratura”, nello scaffale “letteratura bizzarra e visionaria”.
APPENDICE – ULTERIORI SIGNIFICATIVE CITAZIONI DI F.N.
“La crudeltà é mostrata qui per la prima volta come uno dei più antichi e più necessari fondamenti della civiltà.” (GdM)
“I deboli e i malriusciti debbono perire, questo è il principio del nostro amore per gli uomini”(L’Anticristo, Adelphi, p. 169)
“La specie sussiste solo grazie a sacrifici umani”
(Frammenti postumi, Adelphi, vol VIII tomo III pag 257/8)
“Il male è la migliore energia dell’uomo”
(Zarath., parte IV, dell’uomo superiore)
SCHIAVITU Tra le formulazioni più esplicite di Nietzsche è nota quella contenuta nelle conferenze intitolate “Sull’avvenire delle nostre scuole” (1871-1873). Qui viene ribadita la insostituibile funzione della schiavitù in rapporto allo sviluppo della civiltà: «Anche se fosse vero che i Greci furono rovinati dalla schiavitù, molto più certa è quest’altra verità, che noi saremo rovinati dalla mancanza di schiavitù» (edizione Kroner, I, p. 153).
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“Agli ebrei invece auguro sempre più che essi prendano il potere in Europa, per perdere quelle
peculiarità (o meglio per non averne più bisogno), grazie alle quali finora hanno potuto
sopravvivere come oppressi. Del resto è mio sincero convincimento che un tedesco, il quale per il solo fatto di essere tedesco ritenga di essere qualcosa di più di un ebreo, sia un personaggio da commedia, per non dire da manicomio” (poco prima del 5 giugno 1887). Ma nel luglio scriverà, come abbiamo visto, il manuale completo per la giustificazione “filosofica” della eliminazione della razza ebraica dalla superficie terrestre, (GdM, pag 22-25 e seg.)
Ed ora tutto l’ ideale socialista : che altro è se non una balorda incomprensione di quell’ ideale morale cristiano ? … ci saranno sempre troppi possidenti perchè il socialismo possa significare altro che un attacco di malattia; e questi possidenti sono come un uomo di una fede: si deve possedere qualche cosa per essere qualche cosa. Ma questo é il più vecchio e il più sano di tutti gli istinti: io aggiungerei : si deve voler avere di più di quanto si ha , per diventare di più … Nella dottrina del socialismo si nasconde malvagiamente una volontà di negare la vita” (“La volontà di potenza”)
Dante: “ovvero la iena che poeta fra le tombe”. (Scorribande di un inattuale, 1) – Cosa poteva dire di uno che aveva scritto:”fatti non foste per viver come bruti…”)?
Io vi insegno Il Superuomo’. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’uomo? Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appunto ha da essere l’uomo per l’oltreuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna. (Zarathustra Prologo,3)
“Non resta altro mezzo per rimettere in onore la politica, si devono come prima cosa impiccare i moralisti” (aforisma postumo citato da G.Ferrara, 04.06.2009).
Tu dici che è la buona causa che consacra perfino la guerra? Io ti dico: è la buona guerra che consacra ogni causa. (Zarath, I, Della guerra e dei guerrieri, ed.1972)
«L’uomo è cattivo», così parlano con mio conforto i più saggi. Ah se fosse pur vero anche oggi! Giacché il male è la migliore energia dell’uomo. (Zarath., IV, dell’uomo superiore)
I malati sono il pericolo massimo per i sani; non dai più forti viene il danno per i forti, bensì dai più deboli. (GdM III, 14)
Questo libro appartiene a pochissime persone. Forse nessuna di esse esiste ancora. O forse sono i lettori che capiscono il mio Zarathustra: come potrei confondermi con loro ai quali viene oggi prestato ascolto? Solo il dopodomani mi appartiene. C’è chi nasce postumo. Le condizioni per cui mi si capisce, e mi si capisce quindi necessariamente, le conosco fin troppo bene. (L’Anticristo, Premessa)
I deboli e i malriusciti dovranno perire: primo principio della nostra filantropia. Inoltre li si dovrà aiutare a farlo.Che cosa è più dannoso di qualsiasi vizio? L’attiva pietà per tutti i deboli (L’Anticristo, II)
evoluzione nel tempo non significa assolutamente evoluzione, progresso o rafforzamento. In un altro senso, esistono singoli casi di riuscita che fanno costantemente la loro comparsa nelle più svariate parti della Terra e nelle più diverse civiltà dove si manifesta un tipo superiore, qualche cosa che in relazione all’intera umanità costituisce una specie di superuomo. Queste occasioni fortuite di grande riuscita sono sempre state possibili, e forse lo saranno sempre. (L’Anticristo, IV)
2 commenti
Elisabetta · Luglio 15, 2020 alle 3:29 pm
Ottimo articolo! In effetti l’ ho sempre pensato da quando ho dovuto leggere Nietzsche due decenni fa.
La lettura di N. mette malumore e ripugna a ogni essere umano con un minimo di coscienzae degno di interagire nel consorzio umano. E’ veramente indifendibile.
Aggiungo che l’albero si riconosce dai frutti: ho avuto la sfortuna di conocere dei giovani che leggono N. con gusto: e infatti sono dei prepotentelli, degli arroganti, che “possono” bearsi e giustificarsi della loro tracotanza e inciviltà solo perché sanno che tale “grande filosofo” la pensava come loro. Comodo.
AM · Luglio 21, 2020 alle 10:38 am
Gent.ma Elisabetta, è proprio questo il motivo per cui ho affrontato il “mostro sacro”, esponendomi a probabili feroci critiche. Le destre, politiche ma anche solo comprtamentali, si fanno scudo di fonti culturali che a loro volta, in un modo o nell’altro, ripropongono varie versioni di Nietzsche.
Dimostrare che le loro fonti “culturali” si basano sul pensiero paranoide di un folle mi è sembrato un dovere imprescindibie.
Ma quello che non ho mai tollerato è il fatto che tanti altri “mostri sacri” del panorama filosofico mondiale si siano spesi nella ricerca di alibi che ne giustificassero la reale pochezza filosofica, o addirittura che sostenessero che al di la di quello che Nietzsche ha scritto, cè un ipotetico Nietzsche che intendeva dire il suo opposto.
Grazie per il suo incoraggiamento.